venerdì 30 aprile 2010

Ruairi Robinson


Ruairi Robinson, chi è costui? Questo irlandese fattosi le ossa nella pubblicità (alcune di esse anche di alto profilo) si è occupato di un po’ di tutto: titoli di testa di film, cortometraggi, grafica 3d, storyboard. Il nome di Robinson nel corso degli anni è stato accostato a progetti ambiziosi finiti in development hell quali i live-action di Akira e Voltron. Dal 2009 è a lavoro su BlinkyTM alias Bad Robot (qui il teaser trailer), attualmente in fase di post-produzione. Al momento non sono disponibili informazioni riguardo il progetto e non è dato sapere se ti tratti di un corto o di un lungometraggio. Di certo il poster raffigurante questo simpatico robot insieme a tracce di sangue e il sottotesto che recita “Presto in tutte le case ci sarà un aiutante robot. Non preoccupatevi, i vostri bambini sono perfettamente al sicuro” non sono rassicuranti.
Da non perdere i tre corti realizzati da Robinson. The House on Dame Street, di cui è disponibile solo una versione di qualità infima, è ispirato molto alla lontana al racconto Il caso di Charles Dexter Ward di H.P. Lovecraft. In Fifty Percent Gray, nominato agli Oscar come miglior cortometraggio d’animazione nel 2002, Robinson ci fornisce la sua personale versione dell'inferno. The Silent City si avvale di attori in carne ed ossa ed è ambientato in un futuro post-apocalittico. Pur mancando totalmente di una trama (sembra una semplice sequenza estratta da un film) si segnala per l’ottima realizzazione tecnica e la presenza di Cillian Murphy. Ho trovato il making of ben più interessante del corto stesso.

giovedì 22 aprile 2010

Tracker

Appassionati di fantascienza post-apocalittica, avete già visto O-bi O-ba - Koniec cywilizacji e Letters from a Dead Man (cosa giusta e buona) e siete stanchi di deprimervi riflettendo sulla spiccata indole autodistruttiva dell’umanità e sul cattivo uso della scienza? Allora ecco per voi un corto leggero leggero nato dalla mente di Steffan Schulz. In un futuro non molto distante i mutamenti climatici e ogni genere di sostanza inquinante hanno decimato la Terra. Non è più tempo di “massaggi” personalizzati ed è ora di rimboccarsi le maniche. Tocca ai cosiddetti Tracker della BioMEP (Biological Mobile Environmental Protection Unit) perlustrare lande desolate e neutralizzare qualsiasi materiale “nocivo”.

Tracker from Steffan Schulz on Vimeo.

domenica 18 aprile 2010

L'implacabile - The Running Man

The Running Man
USA, 1987, colore, 101 min
Regia: Paul Michael Glaser
Sceneggiatura: Steven E. de Souza
Cast: Arnold Schwarzenegger, Maria Conchita Alonso, Yaphet Kotto, Marvin J. McIntyre, Richard Dawson, Jesse Ventura

Ognuno di noi ha i suoi guilty pleasure. A certi action movie di fantascienza dal gusto spiccatamente fumettistico non riesco a dire di no, specie se “impreziositi” da musichette anni 80 e la presenza di Arnold Schwarzenegger.
The Running Man, letteralmente “l’uomo in fuga”, L’implacabile da noi per l’abitudine tutta italica di rinominare i film, è tratto da un romanzo di Stephen King scritto sotto lo pseudonimo di Richard Bachmam. A dirigerlo troviamo Paul Michael Glaser (proprio lui, lo Starsky originale) che nel corso degli anni ci ha deliziato con pellicole memorabili quali Che aria tira lassù? e Kazaam - il gigante rap. Lascerò a film di ben altre ambizioni qualsiasi discorso sul controllo delle masse attraverso la televisione e la spettacolarizzazione della violenza.
Veniamo immediatamente catapultati a bordo della ricostruzione di un elicottero, con tanto di rear projection a simulare il volo, sul quale si trova in missione il nostro Ben Richards/Schwarzy con i suoi colleghi sbirri. Lo schermo in dotazione all’elicottero ci mostra in grafica vettoriale (che nostalgia, mi ricorda i pomeriggi passati a giocare a Star Wars o Battlezone su C64) la città sottostante con delle simpatiche macchie ad indicare una manifestazione di protesta da parte della popolazione affamata. L’ordine di sterminarli tutti viene prontamente rifiutato dal nostro Schwarzy che da puro di cuore qual è manda cortesemente a farsi fottere il centro di comando. Segue una breve colluttazione dove il nostro ha modo di riscaldare i bicipiti a danno dei suoi colleghi prima di essere neutralizzato. Il massacro avverrà comunque e indovinate a chi sarà addossata la colpa?
L’azione si sposta nel penitenziario/campo di lavoro dove è rinchiuso il nostro eroe. Lo vediamo comparire immediatamente in tutto il suo splendore: barbuto, con lo stesso vestito da fabbro che si è portato appresso dall’Austria, mentre porta in spalla una trave da mezza tonnellata gettandola sdegnosamente come fosse un fuscello. A tutti i detenuti è stato applicato un collare esplosivo (inaugurando così una moda che imperverserà nei futuri prison movie fantascientifici), disattivabile mediante codice dalle postazioni informatiche dei secondini, che li confina all’interno del perimetro del campo. Schwarzy insieme ai suoi due nuovi amici facenti parte di un gruppo di resistenza al sistema, l’immancabile nero massiccio e il nerd, mette in moto la sommossa. Mentre scaraventa giù dalla passerella un secondino, si configura il leitmotiv del film: ad ogni uccisione corrisponde una battuta tamarra/idiota. In questo caso: “Vuoi un passaggio”? Passiamo velocemente oltre. Giunti in prossimità della “zona della morte” il nerd comincia a digitare il codice su di un computer portatile ma dalla sua postazione un infido secondino lo fa a sua volta, vanificando qualsiasi tentativo di disattivare il perimetro. Ad un certo punto l’onnipresente messicano/portoricano, Chico il suo nome, colto da un’un improvviso raptus suicida decide di attraversare con ovvii risultati. Per la serie, se non facciamo esplodere almeno una testa che li abbiamo messi a fare i collari. Finalmente, con lo sforzo congiunto di tre menti si giunge alla conclusione che sparare al secondino è una soluzione conveniente e i detenuti saltellando come scolaretti in festa si avviano verso la libertà.
Una scritta in sovraimpressione ci informa che i nostri tre eroi sono giunti alla periferia di Los Angeles. Uno sfondo di cartone palesemente finto mostra i grattacieli della città “in lontananza”. Qui, tramite megaschermo, veniamo a conoscenza del Running Man, lo show televisivo più popolare d’America che consente ai cittadini di godersi un po’ di sana violenza in diretta. Realizzato in collaborazione con il dipartimento di giustizia vede la partecipazione di criminali ed oppositori politici nella loro lotta per la sopravvivenza o più precisamente nella spettacolarizzazione della loro morte ad opera degli sterminatori dello show. Parallelamente un gruppo di resistenza, i cui membri secondo le leggi del cinema anni 80 devono essere per forza conciati come guerriglieri cubani, cerca di oscurare il network fonte di tutti i mali e del lavaggio del cervello perpetrato sulla popolazione. Grazie al loro aiuto Schwarzy si libera del collare. Non essendo interessato alla lotta politica decide di ricongiungersi al fratello che è in possesso dei contatti giusti per permettergli di fuggire dallo stato.
Si reca in città dove una comparsa vestita da sbirro che passa davanti la macchina da presa ci ricorda che vige una dittatura paramilitare. Giunto nell’appartamento del fratello scopre che quest’ultimo è stato portato via per la rieducazione (tempo di commozione 2 secondi) e prende in ostaggio la nuova inquilina, Amber Mendez (Maria Conchita Alonso), che guarda caso lavora per il network e nel contempo ascolta musica censurata. Nel frattempo il creatore del Running Man, il mefistofelico Killian, impressionato da quella montagna di muscoli guizzanti che risponde al nome di Ben Richards e conscio dell‘effetto mediatico di una sua partecipazione, vuole assolutamente che diventi un concorrente dello show. Giunti in aeroporto direzione Honolulu (possiamo ammirare Schwarzy in camicetta hawaiana e cappello rubato all’uomo Del Monte), Amber riesce a sfuggire al suo sequestratore rifilandogli un pugno nelle parti basse. Dalla minima reazione sul volto di Schwarzy possiamo intuire che o ce le ha d’acciaio o è Big Jim. Nuovamente arrestato si ritroverà suo malgrado a partecipare allo show in compagnia di Laughlin (il nero massiccio e altruista) e Weiss (l’esperto di computer) ai quali si aggiungerà successivamente Amber che ha scoperto la verità sul massacro per il quale è stato condannato Richards. Dopo l’abituale balletto 80’s style (non sarà l‘unico), Schwarzy, con indosso un’aderentissima tutina gialla, viene spedito nell’arena di gioco a bordo di una specie di bob a reazione. Il primo sterminatore che si ritroverà ad affrontare è il professor Sottozero, un asiatico sovrappeso con un’insana passione per l’hockey sul ghiaccio e i puck esplosivi. Numerose inquadrature sottolineano l’esaltazione del pubblico di fronte a quest’orgia di violenza. Si rivelerà meno pericoloso del previsto e dopo la sua morte verrà deriso in diretta televisiva con “Adesso vale di certo meno di zero”, un gioco di parole degno di un bambino di dieci anni. Spetterà a due simpatici figuri che rispondono al nome di Buzzsaw e Dynamo l’arduo compito di eliminare Richards. Il primo è un tizio armato di motosega, il secondo, ridicolo perfino per gli standard di American Gladiator, è bardato come un misto tra un legionario romano e un albero di natale ed è capace di scagliare fulmini mentre ci delizia con la sua voce da tenore. Laughlin e Weiss perderanno la vita causando la commozione del nostro per ben 10 secondi. Nemmeno a dirlo il nostro eroe riuscirà infine ad avere la meglio sui due sterminatori trasformando a suon di motosega Buzzsaw in Farinelli e graziando perfino Dynamo (la sua fine è solo rimandata). Schwarzy il misericordioso farà presa sul pubblico che se infischierà del fatto che ha compiuto una strage di civili e lo osannerà praticamente dal passaggio da un’inquadratura all’altra. Per dovere di cronaca: “Che ne è stato di Buzzsaw?” chiede Amber “Oh, si è fatto in pezzi” risponde il nostro. Benissimo, passiamo a Fireball che come si può intuire dal nome ha a che fare col fuoco e più precisamente si serve di un lanciafiamme. Scontata la battuta “Vuoi da accendere?”prima che gli venga lanciato addosso un bengala. Ci avviciniamo alla resa dei conti finale. Per farla breve, il trasmettitore base del network si trova proprio nell’arena di gioco, il codice viene decifrato e utilizzato da una base segreta della resistenza anch’essa in quella zona (!). Schwarzy si leva la tutina, riabilita la propria immagine grazie al filmato originale del massacro di civili e insieme ad Amber e una schiera di piccoli Che Guevara assalta gli studi. Killian ha quello che si merita e il camaleontico pubblico festeggia. L’improbabile quanto repentina storia d’amore che sboccia tra i due protagonisti sulle note di una canzone simil Jon Bon Jovi chiude degnamente il film.

martedì 13 aprile 2010

Quando gli incubi di H.R. Giger invasero la pubblicità

Nel 1984-85 il colosso giapponese Pioneer commissionò al geniale artista svizzero una campagna pubblicitaria per il suo Zone entertainment center che di sicuro non sarà passata inosservata. Quella sorta di carro armato che compare nello spot e nella seconda immagine è stato riesumato dai concept art della versione di Dune concepita sul finire degli anni 70 da Alejandro Jodorowski e sfortunatamente mai realizzata. Giger avrebbe dovuto creare il design degli Harkonnen mentre Moebius si sarebbe occupato degli Atreides. Da brivido.


lunedì 12 aprile 2010

William Gibson e il cinema

Riusciremo mai a vedere sugli schermi una trasposizione decente di un libro di William Gibson? La sparute notizie che si susseguono da un paio d’anni riguardo la realizzazione di Neuromante (Neuromancer, 1984) non lasciano ben sperare. La cabina di regia pare sia stata affidata a tale Joseph Kahn causando gli incubi agli appassionati. Nel suo folgorante romanzo d‘esordio, Gibson dimostrò la capacità di localizzare con precisione i punti nevralgici della società dell’epoca, riuscendo a creare un futuro credibile ricavato dalle situazioni sociali degli anni 80. Ora, uno come Kahn, regista dei videoclip di Britney Spears e il cui unico lungometraggio è rappresentato da quell’ignominia che risponde al nome di Torque - circuiti di fuoco, è in grado di rappresentare lo straordinario mix di moda e tecnologia del romanzo senza scadere nel fashion patinato? Naturalmente molto dipenderà dalla sceneggiatura sulla quale vige ancora il più assoluto riserbo ma data la natura di progetto da 70 milioni di dollari, le parole di Duncan Jones, regista di Moon, sulla concezione hollywoodiana della fantascienza sono abbastanza esplicative sulla direzione che intraprenderà: "Quando le major si buttano nella fantascienza di solito investono un mucchio di soldi e quindi devono assicurarsi il maggior consenso possibile da parte del pubblico; per questo motivo normalmente il progetto viene adeguato verso il basso. Ciò significa che tutto quello che piace ai veri appassionati di sci-fi non si fa più.” Ricordiamo che William Gibson non è coinvolto nel progetto al contrario del primo fallimentare tentativo di adattamento quando si occupò della stesura del copione insieme a Chris Cunningham.
Bisogna anche ricordare che quando in passato il mondo del cinema ha deciso di sfruttare il potenziale del padre del cyberpunk, i risultati non si sono rivelati incoraggianti. Johnny Mnemonic e New Rose Hotel, entrambi tratti da racconti brevi contenuti nell’antologia “La notte che bruciammo Chrome” (Burning Chrome, 1986), sono tutto fuorchè memorabili.


Johnny Mnemonic
Canada/USA, 1995, colore, 96 min
Regia: Robert Longo
Sceneggiatura: William Gibson
Cast: Keanu Reeves, Dina Meyer, Udo Kier, Takeshi Kitano, Ice-T, Dolph Lundgren, Henry Rollins

Johnny Mnemonic è un racconto breve del 1981 che si inscrive nello stesso universo che verrà successivamente sviluppato nella cosiddetta “Trilogia dello sprawl” costituita da Neuromante, Giù nel ciberspazio (Count Zero, 1986) e Monna Lisa Cyberpunk (Mona Lisa Overdrive, 1988). La successiva “Trilogia del ponte” è invece l’esempio lampante di quanto per uno scrittore diventi difficile proseguire, continuare a far camminare avanti la propria opera, di quanto sia facile che spesso si ripeta, come se avesse esaurito il filone da lui scoperto e ancora si ostinasse a percorrerlo.
Sebbene non ci si avventuri ancora nel cyberspazio, il racconto presenta già alcuni elementi ricorrenti della produzione dell‘autore: lo strapotere delle grandi multinazionali che controllano l’economia globale e le loro lotte di potere, l’alta tecnologia onnipresente e alla portata di tutti e il fatto che i protagonisti sono rappresentati da una manica di perdenti, truffatori e reietti.
La sceneggiatura del film venne affidata allo stesso William Gibson a cui tocca il compito di espandere la ventina di pagine del racconto originale per garantire un’ora e mezza di visione e nel contempo semplificare il più possibile le tematiche cyberpunk tenendo conto di un pubblico non avvezzo al genere. Qualche situazione e qualche personaggio provengono dal racconto omonimo ma Gibson attinge a piene mani dai suoi libri successivi, aggiungendo immersioni nel ciberspazio e un’intelligenza artificiale che vaga nella rete (Neuromante) e una comunità al di fuori dei confini della legge che ha preso possesso di un ponte abbandonato (Luce Virtuale, primo capito della trilogia del ponte).

Johnny (Keanu Reeves) è un corriere mnemonico. Il suo lavoro consiste, grazie ad un chip di memoria impiantato chirurgicamente nel cervello, nel trasportare con discrezione dati trafugati a cui non può accedere coscientemente. Grazie ai suoi servizi non certo a buon mercato, Johnny ha raggiunto un elevato tenore di vita sebbene abbia dovuto sacrificare i suoi ricordi d’infanzia per far posto al chip. Proprio quando si trova ad un passo dal ritiro, il suo agente, Ralfi, facendo leva sull’avidità del corriere, lo convince ad accettare un ultimo incarico per la cifra di un milione di dollari. Johnny si reca in un albergo di Pechino per incontrare i suoi nuovi clienti, due ex dipendenti della multinazionale farmaceutica Pharmakon. Una volta giunto a destinazione scopre che il suo chip non è abbastanza capiente da contenere tutti i dati. Decide comunque di sottoporsi alla procedura di trasferimento durante la quale vengono impostate come password tre immagini random prese dalla televisione che dovranno essere faxate al destinatario. Alla fine della procedura, mentre Johnny si trova in bagno alla prese con un mal di testa lancinante dovuto all’overdose di dati, membri della Yakuza fanno irruzione nella stanza facendo una strage e distruggendo la copia cartacea delle immagini prima che vengano faxate. Riesce miracolosamente a fuggire ma la potente mafia giapponese vuole, letteralmente, la sua testa e inoltre se non riuscirà a liberarsi del carico entro ventiquattr’ore può dire addio al cervello. Inseguito da uno spietato killer munito di laccio monomolecalare in grado di affettare chiunque gli si pari davanti e da un predicatore fanatico pieno zeppo di impianti cibernetici (Dolph Lundgren), viene salvato da Jane (Dina Meyer), una guardia del corpo affetta dalla NAS (sindrome da attenuazione del sistema nervoso), una malattia all’apparenza incurabile che può essere tenuta sotto controllo tramite cure adeguate. Non ci vuole un genio per capire l’entità dei dati trasportati da Johnny, la cui unica speranza risiede in un delfino-cyborg (nel racconto originale anche eroinomane) in grado di decriptarli.

Difficile dire quanto dello script di Gibson sia stato effettivamente portato sullo schermo senza modifiche da parte della produzione, quel che è sicuro è che l’attenzione ai dettagli tipica delle sue opere risulta non pervenuta. Il monologo sul “servizio in camera”, che riesce a donare un minimo di caratterizzazione al protagonista, è sicuramente farina del suo sacco ma nelle mani di Keanu Reeves si spegne. Se già Reeves non è mai stato un campione di espressività e il suo bagaglio recitativo è a dir poco limitato, in quest’occasione offre la peggiore prestazione di sempre, riuscendo a farsi rubare la scena persino da Dolph Lundgren. Almeno quest’ultimo in versione barbuta e lungocrinita, che intima perentoriamente a tutti di pentirsi e snocciola versi della bibbia, è decisamente esilarante.
La trama è riciclata da una spy-story qualsiasi con l’aggiunto di qualche meraviglia tecnologica per affascinare il pubblico dell’epoca e infarcita di dialoghi che nella maggior parte dei casi sono di una piattezza disarmante, come pure i personaggi. Le scene d’azione pur essendo abbastanza statiche vengono rese vorticose da un montaggio serrato ma nel complesso la regia di Robert Longo è piattamente televisiva. Dove il film si risolleva è quando ricorre agli effetti speciali digitali, per quanto risultino ormai datati. La sequenza all’interno del cyberspazio possiede quantomeno di una buona dose d’inventiva. Non che basti questo o qualche buono spunto estrapolato dall’universo gibsoniano per salvare un film vuoto come Johnny Mnemonic.

martedì 6 aprile 2010

Cargo - Recensione e Sottotitoli

Cargo
Svizzera, 2009, colore, 120 min
Regia: Ivan Engler, Ralph Etter
Sceneggiatura: Ivan Engler, Arnold Bucher, Johnny Hartmann
Cast: Anna-Katharina Schwabroh, Martin Rapold, Regula Grauwiller, Pierre Semmler, Yangzom Brauen, Michael Finger

Anno 2237. La Terra è un pianete invivibile dopo che siamo riusciti a distruggerne l’ecosistema e l’umanità è stata costretta a trasferirsi su gelide e sovrappopolate stazioni spaziali. Ai più fortunati, dietro lauto pagamento, è concesso trasferirsi su Rhea, un verdeggiante pianeta lontano anni luce dalla Terra. Sulla speranza di raggiungere questo nuovo Eden si basa l’economia del governo provvisorio: lavorate come pazzi e un giorno potrete permettervi il vostro angolo di paradiso. A peggiorare la situazione contribuisce il fantomatico gruppo terroristico Maschinen Struermer piazzando bombe sulle stazioni e lanciando proclami contro la dipendenza tecnologica. La dottoressa Laura Portmann, decisa a raggiungere la sorella residente da anni su Rhea, accetta di prestare servizio su di un cargo spaziale diretto alla Stazione 42 per rifornirla, all’apparenza, di materiali da costruzione. Per ogni membro dell’equipaggio è previsto un solitario turno di guardia di otto messi prima di passare il testimone e godersi un po’ di sonno criogenico. Durante il turno di Laura, sulla Kassandra cominciano a verificarsi strani avvenimenti che suggeriscono la presenza di un clandestino a bordo e spingono la nostra eroina a svegliare il resto dell’equipaggio. Quella che sembrava una semplice paranoia dovuta alla solitudine si rivela essere qualcosa di più concreto. Il mistero risiede nel compartimento di carico.

Se dovessi elencare tutti i film da cui Cargo trae ispirazione ne verrebbe fuori una lista piuttosto lunga: Sunshine (per la volontà di creare una visione plausibile della vita nello spazio e per la presenza di un clandestino a bordo che cerca di sabotare la missione), Moon (per i gesti meccanici e ripetitivi della vita in solitudine) e Atmosfera Zero, solo per citarne alcuni. L’originalità non abita sicuramente sulla Kassandra.
Il progetto Cargo è stato cullato a lungo nella mente del giovane regista svizzero Ivan Engler che è riuscito a portare sullo schermo un progetto visivamente ambizioso ricorrendo solamente a capitali elvetici. Tenendo conto di un budget inferiore persino a quello di Moon, Cargo riesce a conquistare gli occhi dello spettatore grazie ad un sapiente uso del green screen e alle ottime scenografie che ricreano con perizia l’interno della Kassandra. Dove il film fallisce miseramente è quando tenta di creare tensione, proponendo sequenze costruite malamente e senza i tempi giusti che non riescono a tenere minimamente col fiato sospeso. Si tratta delle uniche sbavature di una regia che svolge bene il suo dovere. La sceneggiatura prevedibile è quantomeno compensata dalla varietà delle situazioni: l’esplorazione del maestoso compartimento di carico che si configura come un mondo a parte, la sequenza a gravità zero molto ben realizzata, la connessione alla simulazione. Negativa anche la caratterizzazione dei personaggi. A parte Laura, è difficile affezionarsi a personaggi appena tratteggiati che sussistono solo per svolgere una determinata funzione per poi scomparire dalla scena.
Tirando le somme, i due registi, a parte alcuni momenti poco ispirati, hanno dato prova di avere le giuste potenzialità per emergere. Engler in particolare dimostra di pensare in grande senza lasciare che un budget limitato condizioni la sua visione e riuscendo insieme al collega ad ottenere un resa visiva encomiabile. Sono curioso di vederli nuovamente all’opera, magari supportati da una sceneggiatura meno prevedibile e derivativa.

Sottotitoli Cargo

Grazie a Mr. Woody inseriti Sottotitoli Cargo versione 720p
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