domenica 29 novembre 2009

District 9 - Recensione

District 9
USA/Nuova Zelanda, 2009, colore, 112 min
Regia: Neill Blomkamp
Sceneggiatura: Neil Blomkamp, Terry Tatchell
Cast: Shartlo Copley, Jason Cope, Nathalie Boltt, John Sumner

Reduci dalla cancellazione dell’adattamento cinematografico del videogame Halo, Neill Blomkamp e Peter Jackson decidono di impegnare le proprie energie creative nella realizzazione di un nuovo progetto, District 9. Se un nome del calibro di Peter Jackson, qui nelle vesti di produttore, decide di dare fiducia all’esordiente regista sudafricano (proveniente da corti e videoclip), un motivo ci sarà. Il motivo è presto detto, District 9, tratto dal corto “Alive in Joburg” dello stesso Blomkamp, rappresenta un ventata d’ossigeno nell’asfittico panorama fantascientifico odierno. Blomkamp ripaga ampiamente la fiducia datagli, scrivendo e dirigendo la sua personale versione dell’apartheid con tale sicurezza e fiducia nei proprio mezzi che è lecito attendersi una fulgida carriera. Il tentativo di rivitalizzare un genere capace oramai di sfornare solo infimi remake e baracconate apocalittiche parte proprio da qui.
Anno 1982, gli alieni arrivano sulla Terra e più precisamene l’astronave madre rimane sospesa nel cielo sopra Johannesburg, in Sud Africa. I nuovi arrivati, che versano in condizioni precarie, non sono certo piacevoli a vedersi nel loro incrocio tra insetti e crostacei (una sorta di versione “ingentilita” degli alieni di Man in Black) ma appaiono per lo più spaesati e non particolarmente aggressivi. Non essendo in grado di tornare sull’astronave madre ed essendo esclusa a priori qualsiasi possibilità di integrazione, si decide di ghettizzarli in una baraccopoli alle porte della città, il Distretto 9. Sono passati vent’anni e in seguito alle proteste sempre più pressanti dell’intransigente popolazione locale viene pianificato un nuovo trasferimento. Per la location del film la produzione ha potuto beneficiare della reale e ormai disabitata baraccopoli di Soweto, i cui abitanti hanno subito la stessa sorti degli alieni del film.
Il compito di trasferire gli alieni, ribattezzati con il temine dispregiativo di “prawns” (gamberoni), viene dato in appalto alla MNU che è anche una delle principali produttrici di armi. La MNU inoltre conduce in segreto esperimenti volti a rendere utilizzabile il ricco arsenale di armi tecnologicamente avanzate e attivabili solo dal DNA alieno che i poveri clandestini dello spazio si sono portati dietro. A capo delle operazioni di trasferimenti viene assegnato lo zelante burocrate Wikus van der Merwe (Shartlo Copley) con il colpito di notificare avvisi di sfratto a sbigottiti alieni che ignorano il concetto stesso del termine. Durante lo svolgimento della sua mansione, Wilkus viene accidentalmente in contatto con una sostanza aliena che altera il suo DNA trasformandolo progressivamente in un prawn. Suo malgrado diventerà un preziosissimo esemplare braccato dalla MNU, in quanto il suo DNA ibrido gli consente di utilizzare le ambite armi aliene. Unico rifugio il Distretto 9 dove scoprirà che il cieco opportunismo(incarnata sia dalle multinazionali che dai contrabbandieri nigeriani) e i pregiudizi sono prerogativa unicamente umana.

Il film si apre in stile mockumentary e, tra servizi giornalistici e riprese amatoriali, sfrutta tutti gli artifizi del genere per contestualizzare la vicenda narrata. Nella seconda parte si torna alla classica ripresa cinematografica, scelta che si rivela essenziale per godere al meglio delle frenetiche scene d’azione. Il lavoro sugli effetti speciali ha dell’incredibile considerando il non esorbitante budget di 30 milioni di dollari e una resa visiva che ne vale il doppio. Il livello di interazione tra creature digitali e attori in carne ed ossa raggiunge vette di eccellenza e le varie armi aliene incluso un mech hanno carisma da vendere. Ennesimo colpo riuscito della neozelandese WETA. Se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo, durante il passaggio tra la prima parte interamente dominata dall’utilizzo di camera a mano e la seconda che gode di una rappresentazione più classica, si avverte per qualche minuto una sensazione di spaesamento abbastanza accentuata. L’impronta di Peter Jackson (sempre memore dei suoi esordi e che è riuscito ad aggiungere un suo personale tocco macabro persino al Signore degli Anelli) si può ravvisare nei graditi effetti splatter che le potenti armi aliene riescono a generare e che allontana, insieme alla caratterizzazione degli alieni e a buone dosi di cattiveria, ancora di più la pellicola dagli standard hollywoodiani.
Ottima la prova dell’esordiente Shartlo Copley in una parte non facile: l’evoluzione psicologica di un patetico burocrate che prova sulla sua pelle cosa significhi essere diverso ma che alla fine avrà modo di riscattarsi, anche se soprattutto per fini egoistici.
Il fatto che il messaggio veicolato da questa metafora dell‘apartheid sia palese (almeno la componente ideologica è condivisibile e non ci ritroviamo di fronte a improponibili derive teocon come nel caso di Knowing) non toglie nulla ad un film realizzato con cura in ogni suo aspetto, senza contare che le riprese effettuate in una vera baraccopoli aggiungono un impatto visivo non indifferente. Numerosi le citazioni ravvisabili, da La Mosca di Cronenberg ad Alien Nation. Toccante l'immagine finale.

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