martedì 12 aprile 2011

Camelot

In attesa che serie qualitativamente impeccabili come Dexter, True Blood, Boardwalk Empire e Mad Men riprendano un posto fisso nei nostri sistemi di file-sharing, decido di gettarmi a capofitto nella ricerca di un riempitivo, non dico in grado di appassionare ma quantomeno di porsi come passabile intrattenimento. Per fortuna il tormentone Lost (ovvero quando si è già capito tutto a metà della prima stagione e creatore e sceneggiatori si ingegnano per farti credere che non sia così per le restanti cinque. In poche parole, una presa per i fondelli) a qualcosa è servito, mi ha reso più intransigente e due puntate sono più che sufficienti per capire l’andazzo e depennare una serie. Camelot rientra tra queste. Dopo il successo di Spartacus Blood and Sand, praticamente una copia carbone di 300 di Snyder con Spartaco al posto di Leonida, il canale Starz si cimenta questa volta con il ciclo arturiano, prendendosi qualche libertà e cercando di riproporre la fortunata formula “tette&culi über alles”. Una domanda sorge spontanea: cosa ci fa la bella Eva Green, le cui quotazioni non mi risultano essere in ribasso, in una Britannia dove fanno la loro comparsa i ciuffi emo e il giovane Artù ha un’espressione che più ebete non si può con il vuoto totale che si intravede al di là degli occhi bovini? Forse è salutare prendersi una pausa dal lavoro serio o forse è il mutuo da pagare. Il resto del cast, composto prevalentemente da attori inglesi, comprende Sean Pertwee, che ricordo con piacere in Botchet, e James Purefoy che pare essersi abbonato a film di cappa e spada (Solomon Kane, l’imminente Iron Clad). A questo punto gli autori di Camelot si sono detti: “perché Artù/Jamie Campbell Bower deve rubare la scena a tutti con il suo talento cristallino? Affianchiamogli un nome di prestigio che vesta i panni di Merlino, in modo che si senta meno solo. Joseph Fiennes, è lui l’uomo giusto!”. E infatti quando due attori di tale caratura compaiono sulla scena, il miracolo si compie, l’alchimia è totale e le lacrime scorrono copiose di fronte a tale spettacolo. Il fatto che non si capisca mai dove stiano guardando è un dettaglio insignificante.
In realtà, il buon Joseph ha preso dal fratello Ralph giusto qualche tratto somatico e non certo le doti recitative, ed è quasi impossibile affezionarsi ad un personaggio da lui interpretato (salvo forse quello in Flashforward, per cui si prova quella simpatia che va di pari passo alla compassione verso un uomo destinato a diventare cornuto senza che possa farci niente). Il suo Merlino in versione rimodernata che si fa chilometri a piedi non fa eccezione. E ora basta che questa serie è insulsa e noiosa e vado a recuperare Excalibur per disintossicarmi.


venerdì 8 aprile 2011

Mammuth - Recensione

Mammuth
Francia, 2010, colore, 92 min

Regia: Gustave Kervern, Benoît Delépine

Sceneggiatura: Gustave Kervern, Benoît Delépine

Cast: Gérard Depardieu, Yolande Moreau, Isabelle Adjani, Miss Ming, Philippe Nahon, Bouli Lanners, Anna Mouglalis, Benoît Poelvoorde


Gustave Kervern e Benoît Delépine, dopo il bellissimo Louise-Michel, tornano a parlarci del tema del lavoro ai tempi della globalizzazione, senza tradire lo spirito anarchico e anticonformista che li contraddistingue e avvalendosi di uno straordinario Gérard Depardieu che giganteggia, è il caso di dirlo, per l’intera durata della pellicola.
Serge (Gérard Depardieu), gigante silenzioso e dall’aria un po’ tonta, soprannominato Mammuth dal nome di una moto degli anni ’70, lavora nel mattatoio di un’azienda di insaccati. Dopo aver abbandonato la scuola prima della licenza liceale ed essersi cimentato in una miriade di lavori (apprendista mugnaio, becchino, buttafuori, giostraio), ha dedicato completamente gli ultimi sedici anni della propria vita al suo attuale lavoro, senza mai assentarsi un giorno né tantomeno creando alcun rapporto di amicizia. Ma a Serge sta bene così, il lavoro è il suo unico valore. Purtroppo per lui, arriva l’età pensionabile, e, dopo un’allucinante e sbrigativa cerimonia di saluto con i colleghi, figure anaffettive interessate per l’occasione unicamente a sgranocchiare patatine, e il discorso, come da manuale, letto maldestramente dal datore di lavoro, si ritrova con un puzzle di 2000 pezzi come regalo di commiato e una vita quotidiana da riempire. La moglie Catherine (la sempre brava Yolande Moreau), paziente e dal forte senso pratico che sgobba in un supermercato, resasi conto delle difficoltà di riadattamento del marito, lo convince ad intraprendere un viaggio alla ricerca dei contributi “dimenticati” da alcuni dei passati datori di lavoro, in modo da poter dimostrare di aver lavorato in tutti gli anni precedenti e godere della pensione. Rispolverata la vecchia moto, una Munch Mammuth 1200, Serge torna sui luoghi della sua adolescenza ma inizierà anche un viaggio dentro se stesso, accompagnato dal fantasma del suo amore giovanile (Isabelle Adjani), morto tragicamente in un incidente proprio con quella moto, una catarsi per rinascere a nuova vita, con maggiore autostima e libero di vivere sentimenti. Durante le tappe del suo viaggio verrà in contatto con una vasta gamma di personaggi, a volte folli a volte commoventi, quasi tutti accomunati da precarietà lavorativa e nessuna speranza di pensione facendo emergere uno spaccato sociale dominato dall’illegalità e dal lavoro nero. Menzione d’onore per la nipote poetessa Miss Ming, un concentrato di follia, ingenuità e candore, un’artista alternativa che crea strani oggetti anche di uso quotidiano e ha seppellito, su sua esplicita richiesta, il padre in giardino per poter continuare a godere della pensione. Al termine del suo percorso, Serge si renderà finalmente conto di essere stato sempre sfruttato e riuscirà a fuggire dalla gabbia in cui si era rinchiuso liberandosi dai sensi di colpa, dai fantasmi del passato e dal senso di nullità che lo aveva portato, meccanismo di difesa per rimozione, a considerare prioritario e degno di essere vissuto appieno solo il lavoro.

sabato 2 aprile 2011

L'angolo dell'avventuriero: Gemini Rue

Alla fine Gemini Rue, precedentemente conosciuto con il titolo di Boryokudan Rue, è giunto alla tanto agognata commercializzazione grazie al supporto della Wadjet Eye Games. Se venite riscaldati da un alone nostalgico al solo sentire nominare le parole VGA e Beneath a Steel Sky continuate pure a leggere. Gemini Rue è un’avventure grafica indipendente di genere neo-noir fantascientifico che deve molto al sopracitato classico dei Westwood Studios e a Blade Runner sia videogame che film. Ci troveremo a vestire i panni di due personaggi le cui vicende sono strettamente connesse: Azriel Odin, poliziotto dall’oscuro passato e Delta-Six, cavia di una struttura segreta di riabilitazione. Il primo si muove sulla superficie del piovoso (bello a tale proposito il plug-in della pioggia) pianeta Barracus alla ricerca di informazioni sul fratello scomparso, il secondo, a cui è stata cancellata la memoria, è guidato dall’unico imperativo di fuggire dalla sua prigionia. Gemini Rue si configura come una classica avventura punta e clicca inframezzata da sporadiche sezioni, gestite tramite tastiera, che prevedono scontri a fuoco giusto per aggiungere un po’ di varietà al gameplay (per i più impediti è possibile abbassarne il livello di difficoltà). Gli enigmi sono strettamente logici e, vuoi anche per la ristretta quantità di locazioni, rimanere bloccati in un dato punto del gioco è pressoché impossibile. Si tratta perlopiù di utilizzare i terminali sparsi per il gioco in modo da ottenere informazioni preziose, di manipolare fisicamente altri personaggi facendo compiere loro una determinata azione (come in Lure of the Temptress, Joshua Nuernberger è fissato coi Westwood e su questo non ci piove) e di tenere a mente che i protagonisti non sono MacGyver e i metodi brutali sono incoraggiati. Arrovellarsi cercando le combinazioni più improbabili degli oggetti presenti nell’inventario non appartiene a Gemini Rue, perché semplicemente non si possono combinare. La storia, che poi è l’elemento cardine del genere, è ben raccontata sebbene sia pesantemente derivativa e presenti un grado di coinvolgimento che si attesta su livelli standard. Non è noiosa, grazie anche a dialoghi che vanno diritti al sodo senza perdersi in lungaggini di sorta, ma i colpi di scena, se così li vogliamo chiamare, sono tutt’altro che imprevedibili. Riesce comunque a stimolare il giocatore nella prosecuzione dell’avventura dato che il comparto grafico, volutamente in bassa risoluzione, leggasi datato (personaggi tutti uguali, locazioni spesso anonime e ripetute), unito ad un coefficiente di sfida che vira verso il basso, non rappresenta certo un incentivo. Il problema di Gemini Rue è che sembra puntare unicamente sull’effetto nostalgia e non presenta contenuti in grado di far scattare la scintilla come avviene in giochi come The Whispered World, favola poetica e toccante, e Downfall, avventura indie dallo stile schizzassimo e splatter. Se poi aggiungiamo che il prezzo, come tutti i giochi Wadjet Eye, è fin troppo alto per quattro orette di gioco (7-8 ore un corno), l’acquisto è da prendere con le molle.


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