sabato 20 febbraio 2010

Legion - Recensione

Legion
USA, 2010, colore, 100 min
Regia: Scott Stewart
Sceneggiatura: Peter Schink, Scott Stewart
Cast: Paul Bettany, Dennis Quaid, Adrianne Palicki, Lucas Black, Charles S. Dutton, Tyrese Gibson, Kevin Durand

C’era un volta un pregevole film che risponde al nome di The Prophecy che narrava di una seconda guerra in paradiso tra due fazioni di angeli: i fedeli a Dio e gli invidiosi per la predilezione del capoccia nei confronti degli uomini. E c’è adesso Legion, dove Dio ha cambiato completamente idea stanco delle “nostre stronzate” (testuali parole) e ha deciso di scatenare le sue armate angeliche contro gli ex prediletti. Ma l’Arcangelo Michele (Paul Bettany) confida ancora nel potenziale dell’uomo e, rinunciando al suo stato semi-divino, si schiera dalla parte dell’umanità deciso a difenderne l’ultima speranza, il figlio non ancora nato di una cameriera. Al termine dei minuti iniziali ad ambientazione cittadina, dove il nostro Michael fa incetta di armi, l’azione si sposta in una sperduta stazione di servizio in mezzo al deserto che, visto il livello del film, non poteva che chiamarsi Paradise Falls. Qui faremo la conoscenza di un eterogeneo e stereotipato manipolo di uomini che si rendono rapidamente conto che se innocue vecchiette cominciano a turpiloquiare, camminare sul soffitto e squarciare giugulari le cose non vanno decisamente per il verso giusto. Guidati da Michael cercheranno di resistere alle orde di umani posseduti e angeli bardati come in un peplum che tentano di eliminare il nascituro. Ne viene fuori il film “d’assedio” più noioso mai prodotto: l’intera parte centrale è interamente dedicata ai rapporti interpersonali tra i vari personaggi, affidandosi a dialoghi che sono la quintessenza della banalità. Prendete il bignami della sceneggiatura, andate alla voce “problematiche familiari spicciole” e avrete ottenuto lo script di Legion. Così troveremo la coppia con figlia difficile, il gangster nero di buon cuore a cui non è permesso vedere il figlio e il povero fesso innamorato della donna messa incinta da un altro, sperando che gli angeli pongano fine alla loro sofferenza, e alla nostra, il prima possibile. Con l’entrata in scena dell’Arcangelo Gabriele si assiste a qualche sprazzo di vitalità ma ad Hollywood se non si riduce tutto alla stregua di un fumetto non sono contenti. Un angelo munito di ali metalliche antiproiettile e mazza ferrata hi-tech? Ebbene sì!
Dennis Quaid ormai si è reso conto di avere una certa età e accetta senza troppa convinzione qualsiasi ruolo pur di intascare. Paradossalmente all’unico altro attore in grado di recitare, Paul Bettany, vengono concesse meno battute di tutti. Stando alle frasi che gli mettono in bocca meglio così. Il pistolotto sull’umanità corrotta ma ancora capace di compiere nobili gesti non ci viene comunque risparmiato. Legion è un prodotto mediocre, estremamente lineare, che nonostante l’argomento trattato è caratterizzato da un’atmosfera religiosa ridotta ai minimi termini. Mai si è vista un’apocalisse così priva di pathos.
Nota di demerito anche per una colonna sonora estremamente invadente fatta di cori apocalittici sfonda-timpani.

giovedì 18 febbraio 2010

Mutant Chronicles - Recensione

Mutant Chronicles
USA, 2008, colore, 111 min
Regia: Simon Hunter
Sceneggiatura: Philip Eisner
Cast: Thomas Jane, Ron Perlman, Devon Aoki, Sean Pertwee, Anna Walton, Benno Fürmann, John Malkovich

Mutant Chronicles è tratto dall’omonimo board game che godette di una discreta popolarità negli anni 90. Sulla Terra del XXIII secolo gli stati nazionali hanno cessato di esistere venendo sostituti da quattro megacorporazioni (Capitol, Bauhaus, Imperial e Mishima) in perenne guerra tra loro per accaparrarsi le esigue risorse rimaste. Durante uno scontro in trincea tra le forze della Bauhaus, una sorta di Reich del XXIII secolo, e della Capitol, l’equivalente degli Alleati, viene scoperchiato a suon di cannonate l’antico sigillo che custodisce la “Macchina”, un dispositivo alieno/demoniaco capace di trasformare gli umani in mutanti con un una sorta di affilatissima chela al posto del braccio. Mentre l’umanità travolta dall’orda di mutanti si prepara a lasciare il pianeta, fratello Samuel, membro della fratellanza che neutralizzò la Macchina secoli addietro, mette insieme una sottospecie di “sporca dozzina” per eliminare definitivamente la minaccia.
Siamo decisamente in territorio b-movie, con tutte le caratteristiche che ci si aspetta da una produzione del genere: budget limitato che si ripercuote su effetti speciali non certo da antologia, uso del digitale per limitare i costi, personaggi macchiettistici, dialoghi risibili. Eppure il risultato finale non è privo di fascino e il motivo è presto detto: una spiccata componente steampunk. Ci troviamo su una Terra del 2707 che fonde elementi futuristici e retro, con evidenti richiami alla Grande Guerra. Un mondo dove si combatte ancora in trincea, dove macchine volanti alimentate a vapore solcano i cieli e dove vige la concezione che più i carri armati e i cannoni sono grossi più male fanno. Come in 300 e Sky Captain and the World of Tomorrow ogni singolo set è stato ricreato mediante il ricorso al green screen. Caliamo un velo pietoso sui terribili schizzi di sangue in CG.
Il cast è decisamente superiore alla media del genere e deve essere costato una fetta consistente del budget. Tra i volti più noti troviamo Ron Perlman nei panni di fratello Samuel mentre l’ex punitore e recente superdotato televisivo Thomas Jane interpreta il disilluso maggiore Hunter. A Devon Aoki, dopo il mutismo di Sin City, sono concesse un paio di battute e un annoiato John Malkovich compare per un paio di minuti prima di ritirare l’assegno e sparire. Lo script non brilla certo per originalità trattandosi della solita missione suicida che comprende atti di coraggio, sacrifici e la morte in serie dei vari personaggi fino alla resa dei conti finale. Mutant Chronicles è l’ideale per chi non ama le sorprese e per i fanatici del green screen allo stadio terminale.

mercoledì 17 febbraio 2010

Scanners - Recensione

Scanners
Canada, 1981, colore, 103 min
Regia: David Cronenberg
Scaneggiatura: David Cronenberg
Cast: Stephen Lack, Michael Ironside, Patrick McGoohan, Jennifer O'Neill, Lawrence Dane

La Consec è un gruppo farmaceutico che ha brevettato l’Ephemerol, un farmaco miracoloso concepito come tranquillante per donne incinte ma che come effetto collaterale ne manipola i geni producendo lo sviluppo di potenti capacità telepatiche e telecinetiche nei nascituri. I soggetti dotati di tali poteri prendono il nome di Scanner. L’inventore dell’Ephemerol è il professor Paul Ruth che ha somministrato alla moglie-cavia massicce dosi del farmaco durante la gravidanza. Il film prende il via quando i due discendenti del professore, il “buono” Cameron Vale e il “cattivo” Darryl Revok, sono già adulti. La forza di uno scanner risiede nel suo cervello, organo letteralmente onnipotente in grado di fondere la materia, sondare la mente altrui e far esplodere le teste. Ma la condizione di scanner può anche trasformarsi in una dannazione. Vale e Revok non si sono mai incontrati e ignorano di essere fratelli ma entrambi sono degli emarginati. Il cervello di uno scanner registra tutte le frequenze mentali alla sua portata divenendo un luogo di “voci” così numerose da rendere impossibile la vita al soggetto se non è in grado di schermarsi. Un filmato in 16 millimetri mostra Revok rinchiuso in un istituto dopo essersi trapanato il cranio nella speranza di far uscire le voci dalla sua testa, le stesse voci che hanno reso folle Cameron e in grado di vivere solo come un barbone. Da parte sua Ruth ha sempre rifiutato la paternità e per tutto il film non si rivelerà mai come il padre dei due. Quando Revok diviene in grado di controllare il suo potere e comincia a raccogliere intorno a sé altri scanner per conquistare il mondo, a Ruth non rimane altra scelta che recuperare il povero derelitto Cameron e servirsi di lui per eliminare il fratello. Daranno vita ad una guerra di cervelli che si concluderà con la morte spirituale di uno a spese dell’involucro carnale dell‘altro. Appare comunque evidente che in futuro i telepati l’avranno sicuramente vinta. Il loro numero è destinato a salire per l’utilizzo dell’ Ephemerol e la loro condizione annuncia una sorta di superuomo del futuro per il quale il corpo è solo materia incapace di resistere all’onnipotenza del pensiero. Sono inoltre assolutamente casti (Cameron ha con la telepate Kim Obrist solo rapporti di tipo telepatico), dei puri spiriti in grado di viaggiare da un corpo all’altro o addirittura fino alla matrice stessa di una macchina (come dimostra la scena della distruzione della centrale informatica). La tematica del rapporto con le macchine verrà comunque approfondita nei successivi lavori del regista canadese.
Pur trattandosi di un horror d’autore, le frequenti scene d’azione e le famose liquefazioni di corpi ed esplosioni di teste lo rendono accessibile ad un pubblico più ampio e meno esigente.
Ha avuto due seguiti firmati entrambi da Christian Duguay, regista di Screamers.

martedì 16 febbraio 2010

Daybreakers - Recensione

Daybreakers
Australia/USA, 2009, colore, 98 min
Regia: Michael Spierig, Peter Spierig
Sceneggiatura: Michael Spierig, Peter Spierig
Cast: Ethan Hawke, Sam Neill, Willem Defoe, Claudia Karvan, Isabel Lucas, Michael Dorman

Anno 2019, i vampiri dominano la terra.
Sono passati dieci anni da quando un singolo morso di pipistrello ha scatenato un’epidemia virale che ha trasformato la maggior parte della razza umana in succhiasangue con conseguente modifica della società. Le strade sono pressoché deserte durante il giorno, il sangue è diventato il perno intorno a cui ruota l’economia e la purezza del plasma in vendita è direttamente proporzionale ai soldi spesi. Edward Dalton (Ethan Hawke) lavora come capo ematologo presso la più grande compagnia che produce, o meglio estrae, sangue. I pochi umani rimasti, infatti, vengono tenuti in stato di incoscienza e spremuti fino all’ultima goccia in avveniristiche “blood farms” che portano subito alla mente Matrix. Edward, che pare essere uno dei pochi vampiri a porsi dilemmi etici sul trattamento riservato agli umani e si nutre di sangue di maiale, cerca disperatamente di sintetizzare un surrogato del sangue per fermare il genocidio della razza umana. Inoltre le scorte di sangue sono in esaurimento e, privati del sangue, alcuni vampiri hanno già cominciato a mutare in versioni alate del classico Nosferatu. Dopo un incontro casuale con un gruppo di resistenza umana che comprende l’ex-vampiro Lionel ‘Elvis’ Cormac (Willem Defoe), Edward si unisce alla causa con la consapevolezza che una cura al vampirismo è possibile. Ma la brama di denaro e potere è rimasta una costante anche dopo il contagio. Ed verrà ostacolato da Charles Bromley (Sam Neill), capo della multinazionale per cui lavora, che vuole mantenere lo status quo e mira a far ripopolare gli umani per utilizzarne il sangue come bene di lusso anche dopo la produzione di plasma sintetico.

Nel loro secondo lungometraggio, i fratelli australiani Spierig riescono a creare un’ambientazione di sicuro fascino mescolando atmosfere futuristiche a tematiche vampiresche. Sicuramente la descrizione della nuova società vampiresca, rifuggendo i classici stilemi post-apocalittici alla Io sono leggenda, porta una ventata d’aria fresca al sottogenere d’appartenenza. Ma il duo di registi non riesce a sfruttare le potenzialità del mondo che è riuscito a creare preferendo puntare sul sicuro, sulla prevedibilità di personaggi e situazioni. Inoltre la sceneggiatura presenta diverse ambiguità sulla natura dei vampiri. Sin dall’inizio del film il vampirismo ci viene presentato in termini razionali come causato da un virus imprecisato, puntando sull’aspetto scientifico. Allora perché i vampiri esplodono in una miriade di scintille quando vengono colpiti al cuore? E soprattutto perché non vedono la propria immagine riflessa? Sono particolari che stonano nella loro mancanza di coerenza.
Gli umani da parte loro non brillano certo per furbizia e si capisce perché sono prossimi all’estinzione: spostarsi in gruppo la notte, che di regola appartiene ai vampiri, non è decisamente un’idea saggia.
La monodimensionalità dei protagonisti non era una grande sfida recitativa: Ethan Hawke fornisce un’interpretazione misurata del puro ed incorruttibile Ed, Willem Defoe è un po’ sopra le righe e Sam Neill si trova a suo agio nei panni del luciferino Bromley, e con quello sguardo se lo può permettere.
Dal punto di vista formale Daybreakers si presenta con una bella fotografia dai toni blu-grigio tendente all’asettico. Chi ha visto Undead, il precedente lungometraggio dei fratelli Spierig, sarà felice di ritrovare i tocchi splatter e gory che lo contraddistinguevano. Ottimi gli effetti speciali che nella loro alternanza tra computer graphics e tradizionali faranno felici un po’ tutti.
Daybreakers scorre velocemente e si dimentica altrettanto velocemente.

lunedì 8 febbraio 2010

Il pasto nudo - Recensione

Naked Lunch
Canada/UK/Giappone, 1991, colore, 115 min
Regia: David Cronenberg
Sceneggiatura: David Cronenberg
Cast: Peter Weller, Judy Davis, Ian Holm, Roy Scheider, Julian Sands, Joseph Scoren

William Seward Burroughs viene considerato lo scrittore americano più innovativo della metà del secolo scorso, a cui si ispirarono nomi del calibro di Allen Ginsberg e Jack Kerouac. La sua opera più famosa, Il pasto nudo, è costituita da un insieme di testi disparati scritti durante il soggiorno di Tangeri, una raccolta di testi e abitudini sulla sua tossicomania e le sue allucinazioni. Il pasto nudo di Cronenberg non è l’adattamento di un libro inadattabile, ma il racconto cronenberghiano del processo che conduce alla genesi de Il pasto nudo e alla nascita di William Burroughs scrittore. Ma fedele al suo stile, Cronenberg ci descrive questo processo non in modo documentario, ma dall’interno. Ci impone una visione allucinata e mai esplicativa della creazione artistica. Nel film viviamo l’avventura di William Lee (pseudonimo di Burroughs ai tempi de La scimmia sulla schiena) che ha scelto la sregolatezza del senso e l’esilio prima di scrivere qualsiasi cosa. Ci troviamo di fronte ad un mondo completamente illusorio partorito dalla psiche del protagonista, in cui tutti i personaggi sono invenzioni di Bill Lee. Assisteremo quindi alla trasformazione di New York in Interzona, una zona fluttuante dell’allucinazione dalle sembianze di una Tangeri mitica da film di spionaggio (ricostruita con la dovuta artificiosità). Burroughs all’epoca del suo soggiorno nordafricano non credeva più nella letteratura, non voleva scrivere e soprattutto non voleva essere considerato uno scrittore. Quest’atteggiamento può essere riscontrato nel film di Cronenberg. Bill Lee, alias William Burroughs, rifiuta di essere uno scrittore, è solo un agente segreto che scrive “rapporti”. Rapporti che gli vengono dettati da una macchina da scrivere-insetto che si esprime attraverso una bocca-sfintere. In seguito si scoprirà che l’insieme di tali rapporti forma un’opera intitolata Il pasto nudo. Bill è quindi come una “macchina da scrivere” che non si accetta e trova nel massiccio ricorso alla droga e all’allucinazione l’unico rimedio per superare tale denegazione. Quando gli amici Martin ed Hank (raffigurazioni rispettivamente di Allen Ginsberg e Jack Kerouac) scoprono che Bill vede nella sua farmacia portatile la macchina da scrivere-insetto che usa per battere i suoi rapporti, non fanno assolutamente nulla perché comprendono che saranno proprio queste allucinazioni a permettergli di scrivere la sua grande opera. E nel mondo senza frontiere fra realtà e immaginazione che risponde al nome di Interzona, Bill riuscirà a scrivere il suo libro trasformando, letteralmente, la sua vita in un’opera d’arte.
La sceneggiatura è stata scritta a partire da elementi biografici (la corrispondenza con Ginsberg) che servono da prologo a un romanzo che si scrive sotto i nostri occhi. Cronenberg inoltre inventa capitoli interi che non appartengono né alla biografia (il rapporto con la coppia Frost, in realtà la coppia Bowles), né al romanzo (le macchine da scrivere insetto) ma che risultano potenzialmente credibili. Qualche citazione e qualche situazione provengono da Il pasto nudo (con rimandi anche a Lettere da Tangeri e Interzona), ma nella maggior parte dei casi si ha a che fare con la perfetta fusione fra l’universo di Cronenberg e gli scritti di Burroughs. “L’adattamento” di un testo estremo come Il pasto nudo era una sfida che in pochi avrebbero osato accettare e che Cronenberg supera a pieni voti. Peter Weller si dimostra all’altezza fornendo l’interpretazione migliore della sua carriera.

domenica 7 febbraio 2010

Arriva l'orda (La horde)!





















Arriva dalla Francia un nuovo zombie movie adrenalinico diretto a quattro mani da Yannick Dahan e Benjamin Rocher.
Periferia nord di Parigi. Per vendicare l'omicidio di un collega da parte di un gruppo di gangster, quattro poliziotti corrotti fanno irruzione in un edificio abbandonato usato dai malviventi come rifugio. Caduti in trappola e ad un passo dall'essere uccisi vengono "salvati" da un avvenimento che cambierà radicalmente le carte in tavola: un'orda di zombie assetati di sangue invade l'edificio facendo strage di chiunque si trovi sul suo cammino. Unire le forze diverrà l'unico modo per cercare di sopravvivere.
Evidenti sono i rimandi al filone dell'assedio inaugurato dal carpenteriano Distretto 13, senza dimenticare un'altra produzione francese, il notevole Nido di vespe. La scena finale del trailer sembra presa direttamente dal videogame Dead Rising.
Uscita in Francia prevista per il 10 Febbraio.

sabato 6 febbraio 2010

Arriva il teaser per il film d'animazione post-apocalittico A.D.

Chi ha amato Resident Evil: Degeneration troverà nuovamente pane per i suoi denti. Questo nuovo lungometraggio (almeno nelle intenzioni degli autori) d'animazione con zombie si presenta con un stile ancora più adulto e non lesina sul sangue. Senza dubbio una buona occasione per spegnere il cervello e godersi un po' di sana azione splatter in CG. Diretto da Ben Hibon (Codehunters) e prodotto da Bernie Goldmann (300).


giovedì 4 febbraio 2010

The Road - Recensione

The Road
USA, 2009, colore, 111 min
Regia: John Hillcoat
Sceneggiatura: Joe Penhall
Cast: Viggo Mortensen, Kodi Smit-McPhee, Robert Duvall, Charlize Theron, Guy Pearce, Molly Parker

Un’imprecisata Apocalisse ha ridotto il mondo ad una distesa di cenere portando al cannibalismo buona parte di un’umanità allo sbando. Un padre e suo figlio (Viggo Mortensen e Kodi Smith-McPhee) attraversano le rovine di questa terra bruciata in direzione dell’oceano dove sperano di trovare condizioni climatiche leggermente favorevoli ma appare fin da subito che la sola meta loro concessa è la mera sopravvivenza. Portano con sé, oltre al “fuoco” dell’umanità, ciò che nel nuovo corso ha ancora un valore: un carrello della spesa con i rari viveri che riescono a rimediare, un telo di plastica per ripararsi dalla pioggia, una pistola dai colpi contati con cui difendersi o eventualmente togliersi la vita per non finire come carne da macello.

La domanda che sorge spontanea è: quanto è fedele il film allo stupendo romanzo di Cormac McCarthy? Se esteticamente sono state operate delle scelte in netto contrasto col il mondo creato dallo scrittore, d’altra parte la maggior parte delle scene è stata copiata dalle pagine del libro fin nei minimi dettagli. Stessa sorte per quanto riguarda i dialoghi e la voce fuori campo di Viggo Mortensen identica ai pensieri del suo alter ego letterario. Quest’ultima, assolutamente non necessaria, evidenzia come il film sia stato colpito dalla sindrome di Blade Runner, ovvero il modo in cui i produttori (in questo caso i fratelli Weinstein, e ho detto tutto) decidono di venire incontro al grande pubblico e ai propri interessi spiegando tutto lo spiegabile. Ma non si può parlare di direttive dall’alto senza menzionare il terrificante montaggio. Di The Road esistono un numero imprecisato di versioni tutte egualmente mortificate da un montaggio effettuato a colpi di mannaia e la colpa non è da imputarsi al povero Jon Gregory. Quando poi vengono aggiunte delle scene non presenti nel romanzo, queste vanno dal patetico (il pianoforte usato come combustibile) al ridicolo (la fede gettata dal parapetto).
Da parte sua, il regista John Hillcoat decide di girare il film a colori tradendo la descrizione mccarthyana di un paesaggio rigidamente monocromatico avvolto in una coltre di cenere che non lascia filtrare i raggi del sole. Non che l’ambientazione non sia suggestiva (e le scene girate nelle zone colpite dall’uragano Katrina sono di sicuro impatto) ma non permette al film di distinguersi da altre pellicole post-apocalittiche. Inoltre il momento dell’apparizione dell’arcobaleno (unica nota di colore in tutto il romanzo) di fronte al bambino perde tutta la sua forza. Con rammarico anche uno degli aspetti che più mi aveva colpito nel romanzo, quella sensazione di freddo che attanaglia il lettore al pari dei personaggi, non è riscontrabile nel film.
Di routine le prove dei due attori protagonisti. L’intensissimo legame tra padre e figlio, reso nel romanzo con una manciata di parole che nascondono un calore umano fortissimo, avrebbe meritato di meglio. Assolutamente da incorniciare invece i cinque minuti di Robert Duvall.
Come nel precedente film di Hillcoat, The Proposition, la colonna sonora è affidata al duo Warren Ellis-Nick Cave.
In definitiva un onesto film post-apocalittico con un paio di buoni momenti e, almeno per il sottoscritto, non particolarmente coinvolgente a livello emotivo. Le difficoltà distributive (per una volta non solo in Italia) dovute ad un’eccessiva tristezza anticommerciale della pellicola fanno ridere i polli.
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