martedì 29 novembre 2011

Stay - Nel labirinto della mente

Stay
USA, 2005, colore, 99 min

Regia: Marc Forster

Sceneggiatura: David Benioff

Cast: Ryan Gosling, Ewan McGregor, Naomi Watts, Kate Burton, Bob Hoskins, Elizabeth Reaser, Janeane Garofalo


Sam Foster (Ewan McGregor) è uno psichiatra che sostituisce una collega nella presa in carico di Henry (Ryan Gosling), giovane studente d’arte, che in teoria, come emerge dal loro primo incontro, ha dato fuoco alla propria auto. Ma dalla scena iniziale del film, con un'auto che si capovolge più volte e alla fine prende fuoco mentre sull'asfalto appare seduto un ragazzo che rialzatosi si incammina lungo l’autostrada mentre tutto attorno si accalcano le macchine, siamo portati a credere, per cercare un senso, un collegamento plausibile, che il ragazzo sia sopravvissuto all'incidente automobilistico in cui probabilmente hanno perso la vita altre persone (sull’auto si trovavano i genitori e la ragazza che avrebbe voluto sposare) e che traumatizzato, abbia "dimenticato" buona parte dell'evento colpevolizzandosi e credendosi responsabile solo di uno degli elementi dell'incidente, appunto il fuoco, che ha soppiantato nella sua mente gli altri aspetti della tragedia. Sam è sempre più coinvolto dagli incontri con Henry, che si svolgono in un breve arco di tempo, soprattutto da quando il ragazzo che si sente "posato" dal precedente terapeuta (e già qui alcuni elementi appaiono strani o comunque non corretti professionalmente: in psicoterapia non si abbandona mai un paziente di botto) gli comunica l'irremovibile intenzione di suicidarsi alla vigilia del suo ventunesimo compleanno, allo scoccare della mezzanotte del sabato successivo, tre giorni dopo.
Un tentato suicidio è già presente nella vita di Sam in quanto la sua ragazza aveva tentato in passato di togliersi la vita ed era stata salvata in extremis grazie al suo intervento (comunque qui c'è volutamente una mancanza di chiarezza, la ragazza potrebbe essere stata una sua paziente dopo il tentativo di suicidio dettato, in un momento di sconforto, dall'impossibilità di sopportare la vita, ma allora non si capisce come mai l'abbia salvata nel bagno della loro casa) e ciò condiziona le loro scelte di vita di coppia, infatti Sam non riesce a liberarsi dal pensiero intrusivo che la sua ragazza possa reiterare il gesto (potrebbe rivolgersi lui stesso ad un bravo psichiatra!). Inizia per Sam una corsa contro il tempo nel tentativo di conoscere le dinamiche che possano spingere il giovane a compiere tale gesto, contattando le persone che lo conoscono. Tutto è avvolto nel mistero e niente è come appare e ciò che sembra reale e tangibile è un'illusione e il reiterarsi degli incontri, alcuni con persone già morte, e delle situazioni fanno precipitare Sam in una dimensione non interpretabile razionalmente in cui il confine tra il reale e l’immaginario che sconfina nel delirio lucido è estremamente labile. Tutto si rivelerà inutile e il ragazzo si ucciderà.
Solo allora la realtà apparirà nella sua completezza e sarà possibile comprendere appieno certi passaggi. Nell'incidente il ragazzo è gravemente ferito, i genitori e la ragazza sono morti, e mentre la gente intorno si adopera per prestare i primi soccorsi (tra questi la psichiatra che lo ha abbandonato, in realtà una donna che è andata alla ricerca di aiuto) sperimenta una "visione panoramica della vita" ma non in senso retrospettivo bensì con creazione prospettica partendo dalla eventuale salvezza e creerà tante storie di vita con un loro passato e presente in cui tutte le persone incontrate, tutte le frasi apparentemente illogiche, sono in realtà quelle percepite prima di morire. Ma questa vita sarà priva di slancio vitale e il pessimismo, l'incapacità di superare la perdita e il ritenersi responsabile prenderanno il sopravvento e solo una morte predeterminata, fortemente voluta potrà "salvarlo" da una non esistenza. Bisognerà aspettare i titoli di coda per vedere scorrere l'intera esistenza di Henry, quella reale fatta di piccole e grandi cose, di positivi punti di riferimento, di progettualità e ci si rende conto che nessun'altra vita sarebbe stata possibile.

venerdì 18 novembre 2011

Rosa di Jesús Orellana

Complimenti a Jesús Orellana che da solo è riuscito a sfornare un corto visivamente accattivante con un’ambientazione post-apocalittica parecchio figherrima. E dico subito che a me non è piaciuto, al di là del mero aspetto visivo non mi ha emozionato per nulla. Questi combattimenti Matrix style mi hanno francamente fracassato gli zebedei, me cala la palpebra. E se l’intero corto ruota intorno a questo, per quanto mi riguarda non va oltre un tech demo fatto con Maya, e a nulla serve un finale che fa il verso a quello di The Cathedral in salsa ecologista. Per carità, nulla di male a scegliere la via più facile per ottenere visibilità, un sacco di gente sbava dietro a questa roba. Non io, comunque. Pare che Rosa verrà convertito in un lungometraggio con attori in carne e ossa, spero che venga posta maggiore attenzione all’aspetto narrativo e se son rose fioriranno (ok, questa me la potevo pure risparmiare).

martedì 15 novembre 2011

Retreat - Recensione

Retreat
UK, 2011, colore, 90 min

Regia: Carl Tibbetts

Sceneggiatura: Carl Tibbetts, Janice hallett

Cast: Cillian Murphy, Thandie Newton, Jamie Bell, Jimmy Yuill


Martin (Cillian Murphy) e Kate (Thandie Newton), coppia sposata in crisi che ha vissuto di recente una tragedia personale, decide di rintanarsi su una remota isola a largo delle coste scozzesi. La speranza, più di lui che di lei, è che questo luogo associato a ricordi felici possa salvare un matrimonio che pare inevitabilmente compromesso. Lei, ancora sconvolta da una gravidanza accolta in maniera fredda dal marito e non andata a buon fine, gli rivolge a stento parola e riversa le sue frustrazioni in mail chilometriche. I tentativi di lui di stemperare la tensione si infrangono contro un muro di stronzaggine e la faccia antipatica di Thandie Newton. I continui problemi tecnici alla radio e al generatore del cottage e l’incapacità di Martin nel risolverli non aiutano la situazione. Proprio quando la tensione raggiunge il culmine, un individuo ferito vestito in abiti militari e in possesso di una pistola (Jamie Bell) collassa di fronte la loro porta. Afferma di chiamarsi Jack e che, mentre partecipava ad un’esercitazione militare in zona, il mondo è stato investito da una pandemia che sta mietendo migliaia di vittime e presto l’isola sarà invasa da gente disperata in fuga dal contagio, quindi per la sicurezza di tutti bisogna barricarsi nel cottage. Impossibilitati a comunicare con la terraferma, i due coniugi accolgono la notizia sospesi tra l’incredulo e l’atterrito mentre Jack non ci metterà molto ad autoproclamarsi padrone di casa a scapito del gracile Martin e della sua lamentosa consorte. Retreat si propone come scopo principale di insinuare nello spettatore lo stesso dubbio di cui sono partecipi i protagonisti: Jack sta dicendo la verità ed il mondo è sul serio sull’orlo del baratro o si trovano semplicemente di fronte ad un uomo affetto da turbe psichiche spinto a restare sull’isola da altre motivazioni? Come spesso avviene in questi casi e senza voler spoilerare nulla, la verità sta nel mezzo, per quanto assurde e poco chiarite siano la circostanze che portano la presenza di Jack sull’isola. Il dubbio, comunque, dura poco. Non c’è bisogno di essere spettatori smaliziati per notare che l’insistenza con cui vengono proposte situazioni di presunto assedio senza che si veda mai anima viva rappresenti un clamoroso autogol. E una volta capito che si tratta di tutto fumo e niente arrosto, anche quel minimo di tensione si era venuta a creare va a farsi benedire. Non resta che godersi la buona prova del ristretto cast, con qualche riserva sulla legnosa Newton. Bravo Jamie Bell, ambiguo e minaccioso al punto giusto, che se si fosse lasciato andare alla caricatura dello psicopatico avrebbe definitivamente affossato il film. Il piccolo Billy Elliott ne ha fatta di strada. Cillian Murphy va bene se preso singolarmente nella sua mezza metamorfosi stile Cane di paglia ma sullo schermo l’alchimia con la Newton è zero, continuano a sembrare due estranei anche quando la situazione degenera in un vero e proprio sequestro favorendone il riavvicinamento. Tirando le somme, il primo lungometraggio di Carl Tibbetts è senza mordente, senza sussulti, nonostante un cast per 2/3 efficace. Con un pizzico di sadismo ho scelto il poster UK, di rara bruttezza, che sembra quello di qualche horror post-apocalittico di serie Z.

mercoledì 9 novembre 2011

I tre moschettieri - Recensione

The Three Musketeers
Germania/USA/UK, 2011, colore, 110 min

Regia: Paul W.S. Anderson

Sceneggiatura:Alex Litvak, Andrew Davies

Cast: Milla Jovovich, Orlando Bloom, Logan Lerman, Matthew MacFadyen, Christoph Waltz, Ray Stevenson, Mads Mikkelsen, Juno Temple, Luke Evans

Non sono un detrattore a prescindere di Paul W.S. Anderson, uno di quelli che aspetta l’uscita di ogni suo film giusto per piazzargli un bersaglio tra le chiappe e sparare con l’artiglieria pesante giusto per rimanere in allenamento fino alla prossima “fatica” di Uwe Boll. È chiaro che l’unica cosa che sappia fare è attingere da universi consolidati (Aliens vs Predator, Resident Evil), dotarli di una discreta confezione e in una duplice operazione occhieggiare ai fan e renderli accessibili a chi non ha conoscenza del materiale di base, fumetto o videogame che sia. Nella maggior parte dei casi il risultato è comunque piuttosto triste ma raramente riesce a sfornare qualcosa di guardabile o, nel caso di Death Race, addirittura godibile. Della cinematografia di Anderson salvo giusto il primo Resident Evil, che pur non avendo nulla a che fare con il videogame della Capcom si lasciava guardare, i momenti demoniaci e gore di Punto di non ritorno e il sorprendente Death Race dalla regia incredibilmente solida ma penalizzato da quella faccia da pirla di Jason Statham che non possiede un minimo del carisma di Vin Diesel, per tacere degli action hero dei tempi d’oro. Animato dalla malsana curiosità di vedere in che modo sarebbe stato violentato il romanzo di Alexandre Dumas padre e complice una strampalata promozione in cui mi hanno praticamente regalato il biglietto, mi lancio nella visione di questi tre moschettieri in chiave postmoderna. Dei sessanta e passa adattamenti de I tre moschettieri quello che presenta la maggiore somiglianza in termini di bruttezza con il film di Anderson è D’Artagnan del 2001 firmato Peter Hyams, la versione imbastardita con il cinema di Hong Kong, nella quale i protagonisti più che gli attori erano gli stuntman chiamati a dar vita ad interminabili ed estenuanti duelli svolazzanti. L‘operazione di svecchiamento fu un disastro e D‘Artagnan & company non vennero più presi in considerazione. Poi venne lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie e Anderson, sempre pronto a sfruttare i trend del momento, si mise strane idee in testa… Il regista, con la scusa del 3D che ne trae beneficio, continua sulla pessima strada intrapresa con Resident Evil Afterlife, annichilendo la messa in scena in un trionfo di sfondi digitali e condendo il tutto con imbarazzanti siparietti comici (per chi non si sa), dialoghi peggiori di tutti i Resident Evil messi insieme, ralenti che non c’entrano un cazzo e trappole con raggi laser che c’entrano anche meno. Tanto per essere chiari, non basta spegnere il cervello per godersi questi moschettieri vagamente steampunk grazie ai progetti di navi volanti del sempreverde e supersfruttato Leonardo da Vinci, qui non siamo dalle parti dello stupidamente divertente. Magari stupidamente irritante. Quando D’Artagnan senior (Dexter Fletcher), posseduto da sceneggiatore dementi, rifila al figlio un’imprescindibile lezione di vita del tipo “Mettiti nei guai, fai errori, combatti, ama, vivi” si capisce che anche spegnendo il cervello, sarà dura. Risultato di cotanta perla di saggezza, in grado di rivaleggiare con il “vivo, amo, uccido e sono contento” dell’ultimo Conan, è che a junior gli sparano cinque minuti dopo. In questo contesto nulla possono i poveri Athos (Matthew Macfadyen), Porthos (Ray Stevenson) e Aramis (Luke Evans) ridotti a macchiette da videogame. Athos pur non nuotando passa per “un nuotatore provetto” e non si capisce come faccia a non annegare con tutta la ferraglia che porta addosso. Potrebbe essere un palombaro ante litteram non fosse per il trascurabile problema di riuscire a respirare sott’acqua. Il prete mancato Aramis tra luna piena e gargolle d’ordinanza si lancia dai tetti manco fosse la vampiressa Kate Beckinsale in Underworld e Porthos non lo si può tenere incatenato che ti fa crollare la prigione e non diventa nemmeno verde. Discorso a parte merita D’Artagnan che è sempre stato insopportabile ed era lecito aspettarsi che venisse interpretato dall’ennesimo ragazzetto con la faccia da schiaffi. Stavolta tocca a Logan Lerman, già visto ne Il patriota dove era uno dei figli di Mel Gibson e in Gamer, che per contratto deve avere il ciuffo alla Zac Efron in qualsiasi epoca sia ambientato il film. Non vedo l’ora di vedere cosa ci riserverà il tristemente certo sequel. Ma anche no.

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