martedì 29 dicembre 2009

Gamer - Recensione

Gamer
USA, 2009, colore, 95 min
Regia: Mark Neveldine, Brian Taylor
Sceneggiatura: Mark Neveldine, Brian Taylor
Cast: Gerard Butler, Michael C. Hall, Amber Valletta,
Alison Lohman, Kyra Sedgwick, Logan Lerman

Dopo l’overdose d’azione ad elettroencefalogramma piatto dei due Crank, il duo Neveldine-Taylor ci trasporta in un prossimo futuro caratterizzato da tecnologie di comunicazione altamente avanzate. In un mondo dove i maxischermi sono presenti dovunque, incluse le piramidi, una nuova frontiera dell’intrattenimento videoludico e televisivo domina l’immaginazione delle masse: Slayers.
Nato dal genio di Ken Castle (il Michael C. Hall di dexteriana fama), la metà oscura di Bill Gates, Slayers consente ai giocatori di comandare il proprio alter ego in uno sparatutto in prima persona, salvo che quest’ultimo è rappresentato da un essere umano in carne e ossa (e tanto, tanto sangue). La tecnologia che lo rende possibile è il Nanex, una nanocellula artificiale da impiantare nella corteccia motoria del cervello, che è in grado di soppiantare le cellule preesistenti e controllare l’individuo mediante funzionalità di accesso remoto. La carne da macello è costituita da detenuti nel braccio nella morte a cui viene offerta la libertà se riescono a sopravvivere a trenta round di carneficina. Tra di loro spicca il misterioso Kable (Gerard Butler, oramai abbonato a ruoli da duro e puro) che è pericolosamente vicino ad uno scomodo rilascio. Le informazioni in suo possesso, infatti, porterebbero alla luce le manie di onnipotenza del nostro Bill Castle.
Nonostante la natura di action adrenalico, Gamer è meno banale di quanto si pensi. Nulla di trascendentale ovviamente, ma il fatto che il duo di registi riesca a inserire, tra sanguinolente battaglie nell’arena e inseguimenti vari, quel minimo di spunti di riflessione è sempre cosa gradita. La figura di Kable è una versione aggiornata del gladiatore nell’era della comunicazione di massa. Il tema della difesa della propria identità in contrapposizione ad un sistema disumanizzante si rispecchia nella caparbietà con cui Kable ripete il proprio vero nome (Tillman) a chiunque, e in primo luogo a se stesso. Quel nome diviene l’ultimo baluardo di individualità contrapposto all’utilizzo del nickname e la connotazione di merce che incarna.
Slayers non è l’unica ossessione di questo mondo futuristico. Largo spazio è dato anche alla precedente creazione di Castle, un gioco a metà strada tra The Sims e Second Life chiamato “Society”, aberrante conseguenza della dipendenza tecnologica. Nel coloratissimo mondo pop di Society, chi se lo può permettere può realizzare qualsiasi strana e perversa fantasia essenzialmente affittando altri essere umani.
Gamer non percorre strade nuove né rivoluziona in alcun modo i generi a cui appartiene, action e sci-fi, ma ripropone concetti familiari con una certa freschezza e un ritmo spedito.
L'azione ha un montaggio veloce ma non confusionario, è chiassosa, ricca di esplosioni e con qualche caduta nel cattivo gusto. I puristi non troveranno alcuna ripresa in soggettiva alla Doom (Andrzej Bartkowiak, 2005) ma avranno modo di inorridire ugualmente per alcune visuali in terza persona estrapolate da un action game a caso. Il microcosmo degli FPS online è ricreato con fedeltà e le strizzate d’occhio ai fan del genere si sprecano (gente che saltella nell’arena di gioco, i “camper”, la personalizzazione dell’arsenale).
Dal punto di vista formale il duo Neveldine-Taylor ripropone il consueto stile fatto di zoomate veloci, inquadrature non convenzionali e largo uso di stop-motion. Poteva essere riposta un’attenzione maggiore nella stesura dei dialoghi. Non che mi aspettassi citazioni dotte, ma nemmeno tanta banalità e mancanza di brio, senza contare che alcuni aspetti del plot scivolano semplicemente nell’oblio. La resa dei conti finale, preceduta dalla perfomance musicale di I’ve Got You Under My Skin, appare frettolosa e scarsamente ispirata. In definita uno scorrevole film d’azione infarcito di citazioni che spaziano da Hackers (Ian Softley, 1995) al costume di Pris direttamente da Blade Runner.

domenica 27 dicembre 2009

Ghost Machine - Sottotitoli

Ghost Machine
UK, 2009, colore, 90 min
Regia: Chris Hartwill
Sceneggiatura: Sven Hughes, Maalachi Smith
Cast: Rachael Taylor, Sean Faris, Luke Ford




Sottotitoli Ghost Machine

martedì 22 dicembre 2009

Online lo script di Hardware 2: Ground Zero

I fan di Richard Stanley saranno felici di sapere che lo script del sequel mai realizzato di Hardware è disponibile per il download.
Il primo film, nella sua commistione a basso costo tra cyberpunk e post-apocalittico, è riuscito a crearsi una considerevole schiera di appassionati. Si parla di questo secondo capitolo sin dal 1996 ma il progetto non riuscì mai a concretizzarsi. La pubblicazione dello script (peraltro in versione revisionata) è chiaramente un modo per tastare il terreno e attivare il passaparola. Così come la recente uscita del primo capitolo in versione blu-ray restaurata.
Stanley è attualmente impegnato nella produzione di Vacation (previsto per il 2010), storia apocalittica di una coppia di turisti americani che scelgono decisamente il momento sbagliato per la loro vacanza, trovandosi in medio oriente allo scoppio della terza guerra mondiale.
Nella speranza che prima o poi si trasformi in qualcosa di concreto, ecco lo script di Hardware 2: Ground Zero.

lunedì 21 dicembre 2009

Sunshine - Recensione

Sunshine
UK/USA, 2007, colore, 107 min
Regia: Danny Boyle
Sceneggiatura: Alex Garland
Cast: Cliff Curtis, Cillian Murphy, Rose Byrne, Chris Evans,
Michelle Yeoh, Hiroyuki Sanada, Mark Strong

A causa dello spegnimento del Sole, la Terra ha subito una nuova glaciazione. A prezzo dell’esaurimento di tutto il materiale fissile del pianeta viene approntata un’astronave con il compito di riaccendere la nostra morente stella mediante un ordigno nucleare da piazzare all’interno del suo nucleo. Si tratta in realtà della seconda spedizione, dato che della precedente si sono perse le tracce, e rappresenta l’ultima speranza della razza umana. I membri dell’equipaggio, all’insegna del politically correct, rappresentano ciascuno i rispettivi popoli della Terra.
Che gli anni 2000 siano per la fantascienza un periodo di totale oscurità è cosa nota. Solo ultimamente si comincia a intravedere qualche spiraglio di luce. Quindi, quando nel 2007 un regista dal glorioso passato (Danny Boyle) ottiene un budget consistente e mette insieme un cast di tutto rispetto per trasportarci sull’astronave Icarus II, l’attesa diventa spasmodica. E puntualmente delusa.
Il principale problema di Sunshine è rappresentato dalla sceneggiatura. Alex Garland (già autore dello script dell’abominevole The Beach) ce la mette tutta per rendere la storia un gigantesco festival del luogo comune e della sciatteria. Gli astronauti a bordo non solo sono stereotipati in base all’appartenenza geografica (il giapponese leader, taciturno e saggio, l’americano testa calda) ma anche irritanti nella loro monodimensionalità. L’unico personaggio degno di nota si può riscontrare nella figura dello psichiatra di bordo, Searle. A un certo punto del film comincia a nutrire un’ossessione nei confronti del Sole che va ricercata nei meandri del nostro DNA, eredità dei rettili in un mondo atavico. Bravo Garland, l’unica idea riuscita l’hai copiata dal romanzo Il Mondo Sommerso di J.G. Ballard (che naturalmente è ambientato in un contesto completamente diverso, l’esatto opposto per essere precisi). I personaggi che possono godere di una, seppur appena abbozzata, componente psicologica sono giusto tre. La presenza degli altri è puramente decorativa e non contano nulla nell’economia della storia.
La vicenda procede stancamente tra gli abituali problemi tecnici causati da fattori umani e non, fino al ritrovamento dell’Icarus I. L’introduzione di un nuovo personaggio, animato da follia religiosa di stampo apocalittico, e l’agognato raggiungimento del Sole conferiscono al film qualche sprazzo di vitalità ma è decisamente troppo poco per risollevarne le sorti.
Il comparto tecnico svolge bene il suo lavoro ma non basta una bella confezione per la riuscita di un film. Boyle sceglie la strada della verosimiglianza, potendo giovare di consulenze qualificate e di scenografie ispirate a prototipi della NASA e sottomarini nucleari. Ma nemmeno lui perde occasione di rendersi ridicolo. Gli innesti di pseudo-messaggi subliminali a bordo della Icarus I, che dovrebbero contribuire ad accrescerne l’atmosfera malata e misteriosa, sono del tutto superflui e fastidiosi. Bellissima invece la colonna sonora di John Murphy e degli Underworld.
Lodato inspiegabilmente dalla critica come ottimo esempio di film a medio-budget non ha avuto riscontro di pubblico (fatto ben più spiegabile). Provaci ancora Danny e cambia sceneggiatore.

domenica 20 dicembre 2009

Sleep Dealer - Recensione

Sleep Dealer
USA/Messico, 2008, colore, 90 min
Regia: Alex Rivera
Sceneggiatura: Alex Rivera, David Riker
Cast: Leonor Varela, Jacob Vargas, Luis Fernando Peña


Sleep Dealer è ambientato in un futuro non troppo distante dove le persone possono collegarsi ad una rete informatica globale utilizzando prese impiantate nei loro corpi in grado di interfacciarsi al sistema nervoso. Gli Stati Uniti hanno innalzato un muro lungo il confine col Messico, ma il paese consente ancora l'assunzione di lavoratori messicani che una volta collegati possono controllare a distanza dei robot. Gli sbocchi lavorativi sono molteplici e vanno dalla classica raccolta delle arance fino al babysitting. In questo contesto, una compagnia privata si è appropriata del rifornimento idrico, mediante la costruzione di una diga, di una vasta regione del Messico. Per gli abitanti della zona, costretti a comprare un bene che appartiene loro da sempre, la vita non è facile. Sullo sfondo, un gruppo ribelle per la ridistribuzione dell’acqua ingaggia una lotta impari contro lo strapotere militare, altamente tecnologico, della compagnia.
Memo Cruz è un ragazzo che vive in un isolato villaggio non tecnologico, che sogna di lavorare in una fabbrica high-tech a Città del Messico, una delle Sleep Dealer che danno il titolo al film. Un giorno costruisce una trasmittente che gli permette di captare segnali dal resto del mondo, unico modo di evadere dall’antiquato contesto agricolo che sembra stritolarlo. Riesce a origliare casualmente le comunicazioni di un’azione antiterrorismo ma la trasmissione viene intercettata e la sua vita cambierà per sempre.

Non si può che elogiare come il regista Alex Rivera sia riuscito a massimizzare il budget irrisorio per portare avanti la sua visione.
Ci troviamo di fronte ad un’immagine del futuro dove gli impianti neuronali, la telerobotica e l’ubiquità garantite dalle rete di computer sono schiave dell’economia globale. Un futuro dove le multinazionali utilizzano lavoratori stranieri per far funzionare a distanza la tecnologia occidentale. Emblematica a questo proposito è la frase più bella del film, pronunciata dal supervisore di una fabbrica, che recita così: “Abbiamo dato agli americani tutto quello che hanno sempre voluto: tutto il lavoro e nessuno dei lavoratori.” Unico requisito richiesto sono prese impiantate nel corpo e diventare letteralmente schiavo del sistema.
La sceneggiatura, firmata dallo stesso Rivera, sottolinea la totale libertà creativa di cui ha potuto godere il regista. La carne al fuoco è veramente tanta, forse troppa. Alcuni temi, come la deformazione della realtà ad opera dei media, sono altamente inflazionati, ma non mancano idee degne di nota. Data la natura di film cyberpunk, la tecnologia assume un ruolo preponderante. Nel mondo di Sleep Dealer se servono soldi extra c’è sempre l’e-bay futuristico dove è possibile vendere i propri ricordi. Se si vuole intraprendere la carriera militare è possibile farlo a rischio zero, combattendo il “nemico” tramite droni senza lasciare il quartier generale. Ma il regista ci ricorda che, paradossalmente, nonostante siamo in possesso di avanzate tecnologie di comunicazione in grado di annullare le distanze, i muri continuano ad essere costruiti ed i confini rimangono ben marcati.
I pochi innesti in CGI di fattura economica non sviliscono un film “militante” dai notevoli spunti di riflessione di un regista che ama profondamente il proprio paese.
Prensentato in concorso all’edizione 2008 del Sundance Film Festival, ha ricevuto l’ Alfred P. Sloan Prize.



martedì 15 dicembre 2009

Loft - Sottotitoli

Loft
Belgio, 2008, colore, 118 min
Regia: Erik Van Looy
Sceneggiatura: Bart De Pauw
Cast: Filip Peeters, Koen de Bouw, Matthias Schoenaerts, Bruno Vanden Broecke, Koen De Graeve, Marie Vinck


Sottotitoli Loft

sabato 12 dicembre 2009

Rutger Hauer e la fantascienza di serie-b

Sebbene fosse già noto nella madre patria Olanda grazie a numerose collaborazioni con Paul Verhoeven, la fama di Rutger Hauer è indissolubilmente legata all’interpretazione del replicante Roy Batty in Blade Runner. Il monologo che tira in ballo i bastioni di Orione e le porte di Tannhauser non è affatto andato perduto come lacrime nella pioggia ed è entrato nell’immaginario collettivo. Il buon Rutger lo scrisse (o meglio lo modificò) prima delle riprese e venne accettato da Ridley Scott, completamente esaurito dalle ingerenze della produzione e dai dissapori con la troupe, purchè si finisse di girare il prima possibile. La carriera di Hauer procede tra alti e bassi per buona parte degli anni 80, soprattutto nell’ambito del cinema di genere. Ne sono un esempio il fantasy ambientato nell’Italia centrale (a dispetto dei nomi francofoni) Ladyhawke, il thriller on the road The Hitcher, e l’ultimo film di Peckinpah, il thriller spionistico Osterman Weekend. Sul finire del decennio la parabola discendente è già ben avviata e piuttosto che rassegnarsi a ruoli di comprimario, il Nostro, forse memore del film che ha contribuito alla sua fama, decide di assurgere al ruolo di alfiere della fantascienza di serie-b. Il sacro terzetto è composto da Giochi di Morte (1989), Detective Stone (1992) e Omega Doom (1996). Ma andiamo con ordine.


The Blood Of Heroes (Giochi Di Morte)

Negli anni 80 la trilogia di Mad Max fece scuola e i deserti post-apocalittici popolati da un’umanità allo sbando andavano per la maggiore nel panorama fantascientico dell’epoca. Giochi di morte non fa eccezione. La vicenda ruota intorno ad un fantomatico “Gioco” le cui regole sono molto semplici, due squadre di cinque membri se le danno di santa ragione tentando di infilare un teschio di cane in un paletto. Il componente della squadra preposto a questo compito prende il nome di quick ed è spalleggiato tra tre jugger, bardati come la versione post-apocalittica dei contendenti di American Gladiators. A chiudere il cerchio un tizio armato di catena a proteggere il quick. Sia come sia, alla fine ciò che conta è che tutti se le diano di santa ragione. Sharko (Rutger Hauer) faceva parte della Lega, il campionato ufficiale che si svolge in quanto sia rimasto di più vicino alla “civiltà“, ovvero la sotterranea Città Rossa. Adesso si guadagna da vivere girando di villaggio in villaggio con la sua squadra e sfidando le selezioni locali di poveri derelitti. Ma il suo ritorno è vicino.
David Webb Peoples (sceneggiatore di Blade Runner, L‘Esercito Delle 12 Scimmie, Gli Spietati) firma qui la sua prima (ed ultima) regia prima di tornare a ciò che gli riesce meglio.
Rutger Hauer, quando non grugnisce menando mazzate, esibisce perennemente un sorrisetto sardonico di chi la sa lunga. Joan Chen aggiunge quella componente “bellezza esotica” che tanto andava di moda in quegli anni. Si rende però protagonista della scena più grottesca di tutto il film. Vediamo un suo primo piano di ammirazione estatica del tipo “è questo il mio sogno nella vita”, seguito dalle immagini di due giocatori che si ruzzolano nel fango pestandosi a sangue.
Il resto del cast comprende un Delroy Lindo dall’espressione perennemente perplessa e Vincent D’Onofrio. Quest’ultimo non sembra ancora essere riuscito a scrollarsi di dosso l’espressione ebete di palla di lardo, alla quale aggiunge movenze vagamente scimmiesche. Inguardabile.
Del film esistono due versioni: l’originale del regista e una seconda per il mercato inglese, sforbiciata di un paio minuti che snatura il finale suggerendo l’happy end per tutti. Del sacro terzetto è il film più decente, o meno indecente, a seconda dei gusti.


Split Second (Detective Stone)

A causa dell’effetto serra la città di Londra è flagellata da costanti piogge che hanno fatto salire a dismisura il livello del Tamigi. L’ambientazione ricorda vagamente (o almeno ci prova) l’Amsterdam semi-sommersa presente nell’Elemento del Crimine (che a sua volta deriva dalla visione apocalittica del grande John Shirley nel primo romanzo della trilogia di Eclipse). In questo contesto a tinte dark, tra buie strade parzialmente allagate e tunnel metropolitani ormai inservibili, un serial killer mutante semina morte lasciando dietro di se tracce di macabri rituali. Il detective Stone (Rutger Hauer) è già entrato in contatto con lui anni prima, uscendone profondamente segnato nel corpo e nella mente. Tra i due si è instaurato una sorta di legame simbiotico, che permette a Stone di avvertire il battito del cuore dell’altro quando si trova nelle vicinanze.
L’inizio del film è promettente, un alone di mistero aleggia intorno al killer che presenta caratteristiche decisamente non umane così come intorno alla figura di Stone, e il pulsare del cuore che si sovrappone ai rumori di fondo durante le soggettive del mutante riesce a creare un minimo di tensione. Ma è solo un abbaglio.
Stone viene umanizzato fin troppo rivelandosi un emerito idiota, l’espediente del cuore pulsante viene stra-abusato fino a risultare stucchevole e la vicenda assume tinte farsesche. La spalla comica rappresentata dal collega di Stone poi, è insopportabile quasi quanto la faccia dell’attore che la interpreta (tale Alistair Duncan). Il look del mutante è talmente simile a quello dell’Alien per eccellenza da rasentare il plagio e la scena della mano artigliata che sventra un vagone ferroviario è trash fino al midollo. Troviamo anche Kim Cattral che l’unica cosa di buono che ha fatto nella sua carriera è stata Grosso Guaio a China Town (stendiamo un velo pietoso anche su Sex And The City). Il titolo originale Split Second (frazione di secondo) da noi è diventato Detective Stone, nel tentativo di creare un alone mitico intorno al personaggio principale, peraltro per nulla memorabile.


Omega Doom

Come direbbero i ragazzi di FilmBrutti, qui la visione si fa autopunitiva.
Il sottoscritto non ricorda se è mai riuscito a vedere questo film per intero ma sicuramente non ha alcuna intenzione di cimentarsi nuovamente nell’impresa. Detto questo vado ad illustrare la trama.
La sequenza iniziale, saccheggiando a piene mani da Terminator (budget permettendo), ci catapulta al termine della solita guerra tra uomini e macchine. Gli umani, sconfitti, si sono rifugiati sottoterra mentre i vincitori, suddivisi in due gruppi di cui non ricordo il nome, si contendono quel che rimane del pianeta. Entrambi i gruppi sono alla ricerca di un fantomatico deposito d’armi che permetterebbe agli umani la riscossa. Tra di loro si muove il cyborg dal cervello danneggiato Omega Doom (chi sarà mai…) che, come il Bruce Willis di Ancora Vivo, mira a ottenere che si annientino a vicenda. Il regista Albert Puyn nella sua ventennale carriera ha sfornato un po’ di tutto, dai fantasy ai film sulle arti marziali, oltre ad essere ossessionato dai cyborg. Frullate insieme alcuni elementi dei generi sopra citati ed otterrete Omega Doom. Rutger Hauer si è perfettamente reso conto in cosa si è andato a cacciare e la sua espressione, mai stata così rassegnata, vale più di mille parole.

mercoledì 9 dicembre 2009

Ga, Ga - Chwala bohaterom - Recensione e Sottotitoli

Ga, Ga - Chwala bohaterom
Polonia, 1986, colore, 84 min
Regia: Piotr Szulkin
Sceneggiatura: Piotr Szulkin
Cast: Daniel Olbrychski, Jerzy Stuhr, Katarzyna Figura, Marek Walczewski, Jan Nowicki

La società polacca degli anni 80 era in pieno fermento, in bilico tra il tramontante comunismo di stampo sovietico, l’affacciarsi dei modelli americano-europei e la nascita di Solidarnosc. Un paese alla ricerca di una propria identità, accarezzato dai venti del rinnovamento ma ancora saldamente ancorato al rigido controllo statale. Ga, Ga - Chwała bohaterom (Ga, Ga - Gloria agli eroi) si fa specchio di quel periodo trasportandoci in un mondo alieno che racchiude in sé gli aspetti più negativi dei modelli sociali anni 80.
In un futuro imprecisato, il benessere diffuso è diventato un serio limite alla colonizzazione dello spazio, in quanto nessuno vuole più intraprendere la pericolosa professione di cosmonauta. Una soluzione viene presto trovata: saranno i prigionieri che affollano le carceri spaziali a farsi carico della colonizzazione di nuovi mondi per la gloria del genere umano. Il prigioniero 287138 ( Daniel Olbrychski) è il prescelto. Nulla ci è dato sapere sulla sua storia ma da un breve accenno si presume che i motivi della sua incarcerazione siano di natura politica.
Atterrato su un pianeta del tutto simile alla Terra salvo che per la notte perenne (ironicamente chiamato Australia 458), verrà accolto come un eroe. Ma essere un eroe in questo assurdo mondo dominato dalla burocrazia non è piacevole come sembra. Gli sfortunati astronauti sono obbligati a firmare un contratto con il quale si impegnano a commettere un crimine a loro scelta e a ricevere l’adeguata punizione per il loro gesto, che consiste nell’essere impalati in uno stadio pieno di gente e in diretta televisiva.
Sebbene le premesse siano abbastanza macabre, i toni utilizzati sono quelli del grottesco e del surreale. L’umorismo nero che pervade i film di Szulkin è qui presente in maniera ancora più accentuata e l’atmosfera che si respira, ben lungi dall’essere confortante, vira più sui toni della commedia rispetto alla cieca disperazione che si respira in O-bi O-ba koniec cywilizacji. Esilaranti a questo proposito il servizio televisivo che illustra le modalità d’impalamento e i siparietti con protagonista Skinny (il sempre ottimo Jerzy Stuhr), il cui compito è rendere la breve permanenza dell’eroe il più piacevole possibile.
Szulkin liquida immediatamente l’aspetto religioso, incarnato dalla ridicola figura del prete (la sua vena critica in tal senso è presente soprattutto in O-bi O-ba ) e si concentra unicamente sui due blocchi politico-ideologici contrapposti. Se da un lato sottolinea l’indole repressiva e l’utilizzo della televisione di stato per fini propagandistici del comunismo, dall’altro si fa beffe della società del benessere,dei simboli che la rappresentano e della spettacolarizzazione della violenza a beneficio di un pubblico morbosamente in cerca di emozioni forti.
Fino al finale anarchico e liberatorio.

Sottotitoli Ga, Ga - Chwala bohaterom

Concludo col segnalare l’uscita del cofanetto dvd che racchiude i quattro film fantascientifici di Szulkin con sottotitoli in inglese:
Golem
O-bi, O-ba - Koniec cywilizacji (O-Bi, O-Ba - The End of Civilization)
Ga, Ga - Chwala bohaterom (Ga-ga: Glory to the Heroes)
Wojna swiatow - nastepne stulecie (The War of the World: Next Century)

Potete ordinarlo a questo indirizzo.
Inutile dire che l'ho già fatto mio.

sabato 5 dicembre 2009

Starter For 10 - Recensione e Sottotitoli

Starter For 10
UK/USA, 2006, colore, 92 min
Regia: Tom Vaughan
Sceneggiatura: David Nicholls
Cast: James McAvoy, Rebecca Hall, Alice Eve, Dominic Cooper, Simon Woods, Benedict Cumberbatch, Charles Dance

Lo spirito di John Hughes aleggia su questa gradevole commedia che ci catapulta indietro negli anni 80, ma questa volta nella cara vecchia Inghilterra. Anche grazie a questo, i protagonisti, rispetto alle loro controparti yankee, mostrano un pizzico di spessore in più e il rischio di imbattersi in un quarterback o in una cheerleader è nullo.
Il protagonista del film, Brian Jackson (James McAvoy), è un intelligente ma un sprovveduto ragazzo appartenente alla working-class, che tenta di sfuggire alle sue umili radici iscrivendosi ad una costosa università inglese. Brian, come viene sottolineato dalla frase d’apertura “Sin da quando posso ricordare, ho sempre voluto essere intelligente”, vede nel farsi un’istruzione l’unica possibilità per emanciparsi dalla sua condizione sociale e non finire come i suoi amici scansafatiche, già avviati al sussidio di disoccupazione. L’opportunità di dimostrare a se stesso quanto vale (complice anche una triste figura paterna che godeva della bravura del figlio nell’indovinare le risposte di un quiz a premi e immaginava per lui un grande futuro) è fornita da un quiz show televisivo, University Challenge, in cui si sfidano a suon di domande le rappresentanze di diverse università. Alle selezioni per la formazione della squadra, incontra la bionda gattamorta Alice (Alice Eve) alla quale, essendosene invaghito, permette di copiare. Contemporaneamente entra nella vita di Brian un’altra ragazza, Rebecca (Rebecca Hall), una bruna attivista politica di origini ebraiche che rappresenta l’esatto opposto di Alice. I risvolti romatici, inframezzati da feste a tema “ Preti e Prostitute” e prima tiri di marjiuanana, saranno prevedibili. Ne viene fuori una godibile commedia romantica che, nonostante alcune situazioni, non rasenta mai la volgarità e farà felici i nostalgici fino al beffardo finale. Il tutto è ottimamente supportato da un cast di giovani attori tra cui spicca l’ingenuo ma risoluto Brian di James McAvoy ( la cui carriera è meritatamente in costante ascesa, ma Wanted non glielo perdono) a cui è difficile non affezionarsi. È presente qualche somiglianza con il sensibile personaggio di Andrew McCarthy in Pretty in Pink, solo meno fighetto e di modeste origini. Dall’attore di bratpackiana fama mutua anche l’orribile pettinatura.
Ottima la colonna sonora che comprende gruppi quali The Cure, Tears for Fears e The Smiths.
Buon successo in patria.

Sottotitoli Starter For 10 ad opera di Faye

mercoledì 2 dicembre 2009

Hardware - Recensione

Hardware
UK, 1990, colore, 93 min
Regia: Richard Stanley
Sceneggiattura: Steve Macmanus, Kevin O'Neill
Cast: Dylan McDermott, Stacey Travis, John Lynch, William Hootkins, Iggy Pop, Lemmy Kilmister

L’incipit di Hardware è di quelli che lasciano il segno. Un uomo cammina solitario in un deserto spettrale, chiamato la “Zona“, fotografato nei toni del rosso e dell‘arancione. Una maschera antigas gli copre il volto. Attraversa quel che rimane di una recinzione inoltrandosi in quella che doveva essere una zona vietata. L’uomo è uno scavenger, un nomade solitario che compie lunghi peregrinaggi attraverso una terra desertificata e altamente inquinata alla ricerca di qualsiasi oggetto possa rivelarsi utile. Trova nella sabbia i resti di un cyborg e impossessatosi della testa si avvia verso la prima degradata città.

Ci troviamo di fronte ad uno degli esempi meglio riusciti di estetica cyberpunk e più precisamente della sua corrente maggiormente “punk“ incarnata da scrittori come John Shirley ed intrisa di simbolismo apocalittico. Niente cowboy del cyberspazio o nanotecnologia applicata quindi, ma un efficace ed energico film di fantascienza che riesce a sopperire con intelligenza al basso budget. I vari rimandi al Nirvana e la spiritualià New-Age di alcuni personaggi non si elevano al di là di note di colore.

La scena si sposta in città dove Moses Baxter (Dylan McDermott, la star del telefilm The Practice, imbambolato e monoespressivo come sempre) riesce ad aggiudicarsi la testa per portarla in dono alla sua fidanzata Jill (Stacey Travis), scultrice specializzata in installazioni post-industriali. L’idea non si rivela saggia. La testa appartiene allo sperimentale modello MARK 13, ideato come (sanguinosa) alternativa al controllo delle nascite su una Terra che oramai può garantire pochi mezzi di sostentamento e programmato per eliminare qualsiasi essere umano gli capiti a tiro. Inoltre è in grado di rigenerarsi con materiali di fortuna ed in casa di Jill il metallo non manca. Per Jill e il vicinato sarà una lunga notte.

Tra i film sfacciatamente omaggiati troviamo Mad Max, Profondo Rosso e naturalmente Terminator. La vera star di Hardware, come nel film da cui trae maggiormente ispirazione, rimane il crudelissimo cyborg con il consueto armamentario di seghe circolari e trapani integrati che faranno la felicità di ogni amante del sangue a spruzzi. Il suo animatronic ci riporta ad un cinema ancora saldamente ancorato alla sua dimensione più fisica e materiale, prima dell’avvento degli effetti speciali digitali.
I colori dominanti sono il rosso e l’arancione che ben si prestano sia per le riprese in esterni, donando al deserto un’aura ancora più apocalittica, sia per gli interni, dando agli ambienti quel tocco futuristico in più. A sottolineare il budget risicato, la maggior parte del film si svolge all’interno dell’appartamento di Jill e nelle immediate vicinanze. La scelta di mostrare poche locazioni ma ricche di dettagli si dimostra vincente. Il montaggio videoclipparo evidenzia i trascorsi dell’allora esordiente Richard Stanley come regista di spot pubblicitari, che qui realizza senza dubbio il miglior film della sua ristretta filmografia.
Cameo di Lemmy dei Motorhead nei panni del tassista che ascolta alla radio il gruppo d’appartenenza, mentre Iggy Pop presta la voce disc-jockey Angry Bob.




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